7 ottobre ore 18
Torino, Feltrinelli Express Stazione Porta Nuova
Dialogo con Piero Negri Scaglione
Estratto guidato
Resta bello vedersi analogicamente! Nell’era dell’iperconnessione Vasco Brondi continua a muoversi controcorrente come del resto ha sempre fatto. La sua viene definita un’evoluzione artistica che non ha mai tradito quell’idea di indipendenza e di libertà, lontana dalle mode o dalle tendenze. Ed eccolo lì, seduto su uno sgabello mai troppo facile da gestire, la barba quasi da santone, i soliti anfibi consumati, la chitarra argentea che sembra provenire direttamente da una delle galassie di Costellazioni, gli occhi di criptonite. Sì, è proprio lui. E forse in situazioni del genere – poche persone su cui poter far cadere il proprio sguardo una per una, i brani in acustico così come sono stati pensati in origine, le letture a voce bassa ma ben scandite – lo è ancora di più.
Pensai esattamente la stessa cosa a marzo dell’anno scorso.
Ero a Verona, in Feltrinelli, e Vasco presentava Terra. Ricordo anche che rimasi un po’ delusa quando qualche mese dopo andai a sentirlo in concerto all’Estragon, a Bologna. Non lo trovai particolarmente a suo agio su quel palco. Molte imprecisioni, pochi picchi catartici e di effettiva intensità, disarmonia dei movimenti corporei. Ammetto di preferire il Vasco più intimo e lasciato nudo da qualsiasi supporto tecnico-scenografico.
E adesso sono qui/
È un superpotere essere vulnerabili/
E adesso sono qui/
Dove sono possibili cose impossibili.
Ed è proprio in piccoli segmenti temporali come quello di cui sto scrivendo che sono possibili cose impossibili. Un’empatia disarmante, la sensazione di essere nel posto giusto al momento giusto, la dissoluzione, almeno per un attimo, dello sciame digitale, la reale comunione dei corpi. Lui è lì a pochi passi da me, lo abbraccio e di colpo esplode tutto quello che ho provato in anni di ascolto delle sue canzoni. Piango. Penso a I destini generali e a quanto vitali e spronanti siano state quelle parole.
È solo un momento di crisi di passaggio, che io e il mondo /
stiamo attraversando /
È solo un momento di crisi di passaggio che io e il mondo /
stiamo superando.
Ma Vasco è qui e ora per un motivo: la presentazione di 2008-2018: tra la via Emilia e la Via Lattea, il doppio album che racconta il viaggio de Le Luci Della Centrale Elettrica e che ne rappresenta anche il capitolo conclusivo. Scelta coraggiosa ma quasi inevitabile.
“effettivamente era una cosa su cui non avevo mai riflettuto prima di quest’anno, dopo che si era già deciso di fare questo disco/raccolta con queste versioni dei pezzi, con delle cover messe in mezzo e un paio di inediti… un giorno, qualche mese fa, mentre riaffrontavo quello che avevo fatto in questi dieci anni – cosa che di solito non mi succede perché tendo a non riascoltare mai tutto un disco dall’inizio alla fine – mi è proprio salita forte e chiara la sensazione che con questo disco poi il progetto Le Luci della Centrale Elettrica sarebbe finito. Addirittura mi era venuto prima questo sottotitolo Tra la via Emilia e la via Lattea, che in un certo senso è il viaggio intero de Le Luci a partire da una periferia di 4 km quadrati che poi si è esteso fino a diventare il pianeta terra o addirittura un barettino sulla Via Lattea.
Per me Le Luci della Centrale Elettrica non è solo un nome
È anche sempre stato una scenografia, uno sfondo molto caratteristico per le canzoni e niente, in realtà io che sono abitualmente portato ad avere dubbi ho invece avuto chiarissima questa cosa, quindi c’ho pensato qualche giorno da solo e poi mi sono confrontato con le persone con cui lavoro e con i miei amici ed ho avuto la conferma che sì, era inevitabile. Diciamo che spesso le scelte, per noi che crediamo di essere liberi di scegliere, le scelte un po’ importanti, in realtà sono inevitabili… le assumiamo ma non c’è molto altro da fare, quindi semplicemente ho preso atto di questo e di conseguenza l’ho messo in essere.
Non ho idee precise per il futuro ma penso che improvviserò e che le canzoni mi chiameranno comunque sempre a sé; allo stesso tempo, però, non mi metto neanche nelle condizioni di dire ‘ok è una scelta che mi impone un ulteriore piccolo salto evolutivo’, non è che adesso che ho cambiato nome devo stupire tutti tirando fuori il disco di Micheal Jackson. Non credo in questo. Credo che anzi la libertà sia all’opposto: non è fare una cosa a caso per stupire gli altri ma è fare una cosa che è importante per me e che forse può essere quella che mi riesce anche bene”.
Aveva appena scritto Piromani, ma neanche del tutto.
C’era pronto forse il ritornello (se così vogliamo definirlo) e lì era contenuta Quella frase: Andiamo a vedere le luci della centrale elettrica. Non riesco a non pensare all’urlato di Giorgio Canali e a quanto distante e insieme complementare sia la versione di Vasco contenuta in 2008/2018 Live in studio, quasi una ballata, come lui l’ha definita.
All’epoca i ragazzi dello studio di registrazione Natural organizzavano una rassegna musicale nel ferrarese e cercavano artisti emergenti locali per aprire gli headliners delle varie serate. Tra gli altri, scelsero di far salire sul palco anche Vasco, del tutto alieno rispetto alla generale tendenza crossover/new metal di quegli anni e forse più vicino ad una forma al primo ascolto quasi repellente – non a caso suonava da solo – di Freak Show. C’era poi bisogno anche di un nome da inserire nel volantino pubblicitario dell’evento: ‘Le Luci della Centrale Elettrica’, fu comunicato all’organizzazione. “Ma sei sicuro? A me fa schifo. Pensaci su almeno stasera e poi domani in caso me lo confermi”.
È così è andata.
“Forse per me è stata un po’ una reazione, perché non accettavo il fatto dire ‘ok sono un cantautore’. Avevo suonato per anni in una punk band il basso, De Gregori e Battiato li ascoltavo di nascosto. L’importante poi era che il nome dicesse già qualcosa, che si capisse già di cosa stavamo parlando. Quando sono uscito nel 2007/2008 con il demo e il primo disco sono stato da subito considerato il paladino dell’indie ma in realtà quello che facevo in quel momento era assolutamente una cosa altra. All’epoca c’erano i Giardini di Mirò, i Canadians, si cantava comunque in inglese.
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L’indie erano le magliette a righe, le ballerine, le spillette. C’era una bella allegria ma era proprio un altro mondo e io non ci centravo niente. In ogni caso, ero qualcosa di già formato perché mi sono affacciato al 2008 come se fosse il ’94: la mia cultura musicale si era fermata ai CSI, ai CCCP, agli Afterhours e non sapevo niente di quello che c’era in giro. Questo mi ha fatto capire che l’ignoranza in certi casi è molto importante perché ti permette di non rispettare le regole del gioco, di buttarti allo sbaraglio sicurissimo di te perché non sai quello che sta succedendo, perché è roba nuova anche se vecchia o comunque quasi già dimenticata. Ti dà una libertà maggiore il fatto di non dover avere un confronto o un’emulazione ma di dovertelo in qualche modo inventare”.
In realtà aleggiava in lui la convinzione che nella vita avrebbe scritto.
Da ragazzino saltava scuola per andare in biblioteca a leggere e poi dai 15/16 anni ha iniziato invece a scrivere libri, “cose lunghe ed orribili”. Ma ad un certo punto il punk con la sua forza centrifuga l’ha attratto a sé. La chitarra del fratello era proprio lì, lo stava aspettando. I primi pezzi cominciano a vedere la luce: nasce così Canzoni da spiaggia deturpata. Vasco considera quello delle canzoni il linguaggio privilegiato, il più immediato, il più potente. “È una macchina del tempo e dello spazio di cui però non si ha controllo”, dove prima non c’era nulla, nello stesso punto dopo c’è qualcosa.
“Questo non è un lavoro da archivista. Non si tratta di leggere e ascoltare il più possibile ma di sintonizzarsi con il proprio tempo, con quello che c’è nell’aria e che poi ti arriva, entra in una canzone e questa a sua volta diventa il documento di quella cosa lì. Ascolto La domenica delle salme e sento gli anni ’90 in tre minuti, oppure ho scoperto gli anni ’70 da Incubo numero zero di Claudio Lolli. C’era veramente dentro tutto in quei quattro minuti e mezzo. Nella musica c’è poi una certa componente corporea, è un gesto indispensabile. Invece a stare seduto a scrivere, tuttora, dopo un po’ non ci riesco. Se non ho la musica sotto è più difficile scrivere. C’è il corpo, c’è qualcosa di umano e organico nelle canzoni che comunque mi continua e mi continuerà sempre a richiamare”.
Qualcosa che però lo tocca più della musica c’è: ora come ora sono le “esperienze non mediate”.
“Per arrivare alla realtà dobbiamo veramente andarci noi adesso con il corpo e con la mente e non farcela raccontare neanche dagli artisti; dobbiamo essere noi nei contatti diretti a connetterci con gli altri. Ogni giornata dovrebbe essere una performance artistica di questo tipo: gli incontri. L’essere qui in carne e ossa e poi non esserci più, essere di passaggio. Mi interessa il mistero. Mi torna sempre in mente quello che dicevano i CCCP: ‘la situazione è eccellente’ e cioè sono esattamente questi i tempi in cui possiamo fare qualcosa e vanno bene così.
Va bene il posto in cui siamo, cosa facciamo, la persona che abbiamo a fianco e adesso è questo il momento, c’è, è sacro. Significa essere attento a quello che succede momento per momento, non dare per scontato qualcosa come quando mi viene mal di gola e non riesco a cantare. Quando ricomincio a stare bene e riesco a ritornare al mio lavoro capisco quanto sia importante per me cantare. Riscopro l’essenzialità di questo gesto, che non è solo lavoro, non è solo routine. Mi godo un momento solamente quando non lo do per scontato”.
E anche se in questi ultimi dieci anni l’ambiente attorno a chi fa musica è radicalmente mutato, le dinamiche di base sono rimaste le stesse. L’approccio “brondiano” alla creazione musicale prevede sempre il rimaner concentrati su quello che si sta facendo, qualsiasi cosa succeda là fuori perché molto spesso potrebbe rivelarsi solamente una distrazione.
“Per me è stato veramente un bene arrivare al 2008 come se fosse il ’94 e non essermi accorto di quello che circolava perché non compravo le riviste musicale, non riuscivo ad andare ai concerti dato che lavoravo tutte le sere e tuttora – anche se non credo sia un esempio veramente da seguire – non è che io faccia caso attentamente a quello che musicalmente parlando succede. Non è che Paolo Conte negli anni ’80 visto che c’era la disco music abbia iniziato a lavorare come produttore di disco music!
Credo in questa roba qua: uno ha la sua personalità e il suo percorso che può essere profondo e popolare pur essendo e anzi proprio essendo incredibilmente personale. Il resto rischia di essere solo scelte mentali quasi strategiche. Persino Leonard Cohen che io adoro e che per me è un mito, quando negli anni ’80 fa qualcosa con la tastiera e i cori femminili… ecco quelle cose lì sono inascoltabili quindi ti viene da dire ‘ok era meglio se non sapeva cosa facevano gli altri, era meglio continuare con la chitarra e gli archi’ ”.
Alla fine si ritorna sempre a Lei, alla musica, alla propria musica.
“Da quando l’ho incontrata per me è partita un’altra vita”. E un’altra ne partirà ora, con la fine de Le Luci della Centrale Elettrica che però non è la fine di Vasco Brondi. È forse più una rinascita. E poi continuare a vivere e non avere niente da perdere.
In attesa di ritrovarti nelle pagine di Dieci anni di luci e nei suoni dell’ultimo tour teatrale,
sempre come un amuleto terrò i tuoi occhi nella tasca interna del giubbotto.
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