La storia di Gianluca Grignani è fra le dita di chi sa accarezzarla
Estate 2021, finestrini abbassati e musica a palla che proviene dall’autoradio. Siamo un bel gruppo di amici e l’obiettivo di giornata è una gita piuttosto impegnativa e selvaggia fra le montagne di casa. Divisi in due auto, cerchiamo di fissare un punto di ritrovo preciso, a ridosso del sentiero. Un luogo che anche Google Maps sappia riconoscere, senza il rischio di portarci chissà dove. Optiamo allora per un locale dal nome angelico: Agritur Paradiso. “Monica, scrivi: Destinazione paradiso” urla il mio amico Edo, alla guida. E io l’ho scritto. Però – prima ancora che su Maps – ho digitato quelle due parole su Spotify: perché non poteva esserci canzone migliore ad accompagnare l’inizio di quell’avventura.
“Un viaggio ha senso solo senza ritorno se non in volo”
Ma il ritorno di Gianluca Grignani sul palco dell’Ariston non è stato esattamente l’atterraggio misurato e perfetto che tutti si aspettavano.
Quella di accompagnare Irama nella serata delle cover era già stata annunciata dalla stampa come un’impresa: le testate giornalistiche paventano scontri accesi per la scelta della canzone o comunque discussioni e fraintendimenti nel dietro le quinte.
Quasi inutile dire che lo stesso Irama ha poi dovuto calmare opportunamente gli animi, spezzando più di una lancia a favore dell’amico.
“Lui ha questo modo crudo e vero di cantare, che si mischia alla sua emotività disarmante. Per me è stato un onore salire sul palco con lui. Il resto sono tutte fake news. I giornali hanno raccontato un sacco di cavolate” ha dichiarato a Domenica In.
Nella settimana successiva alla performance, tuttavia, il dibattito si è addirittura inasprito.
Il pubblico di Sanremo, diviso sugli applausi a Checco Zalone, è stato crudele ed unanime nel decretare il proprio verdetto: Grignani è un tossico, Grignani è un alcolizzato, Grignani è l’eterno bambino che non sa crescere nemmeno calcando un palco così grande. Quello stesso palco che proprio a 23 anni l’aveva visto esordire, cantando il brano citato poc’anzi.
Era il 1995: io stavo giusto per nascere, ma forse già sapevo che il video di quella canzone mi avrebbe subito conquistata, da adolescente. Un Grignani seduto sulla sedia di vimini, a suonare la sua chitarra: lei così simile alla resofonica di Mark Knopfler e lui così assorto, uguale a Neil Young. Ma molto più bello, ça va sans dire.
Ventisette anni più tardi, in quello stesso teatro, Gianluca Grignani scende le scale da “ospite”, correndo senza venir subito inquadrato dalle telecamere. Lo inquadra però l’applauso del pubblico, ancora non del tutto conscio di quello che sta per accadere. Perché la prima cosa che salta all’occhio – e sulla quale molti detrattori si sono bloccati senza dimostrare la capacità di andare oltre – è proprio il modo in cui Grignani ha scelto di apparire. L’outfit, la mise, il trucco: tutte cose che a Gianluca forse non sono mai davvero importate. Eppure, nel particolare contesto sanremese, quel travestimento da Joker rovinato è apparso fuori luogo e inaspettato, in una parola: strambo. Cosa che è bastata per iniziare a bollare l’intera performance di Grignani al fianco di Irama come la farneticante comparsa di un uomo finito.
Eppure basterebbe l’accortezza di andare a scavare un minimo nella sua storia discografica per capire che non si tratta proprio di questo.
The Joker è una delle canzoni più intense mai scritte e cantate da Grignani, quella che forse – a suo stesso dire – meglio sa descriverne le luci e le ombre. Un brano che si colloca nel periodo immediatamente successivo alla sperimentazione inaugurata da Gianluca, già stufo – dopo appena due anni – di vestire soltanto i panni del musicista belloccio. Anche se, in verità, già dai suoi primi brani la bellezza che risaltava di più era quella dei testi, scolpiti nella musica con una sensibilità bruciante.
La fabbrica di plastica (1996) è però il primo step verso nuove sonorità. Grignani, appena ventiquattrenne, appariva più che lanciato dentro una vera e propria ricerca sonora. Una ricerca dove l’atmosfera più cantautorale, da ballad, si fondeva nelle sfumature di vari generi anglo-americani. Un amalgama di brit-pop, grunge, psichedelia e suoni acidi sullo sfondo dell’immancabile sound rock a permeare tutto il puzzle. Un puzzle di sfumature che si rifletteva poi anche nella copertina stessa del disco, pensata al millimetro e realizzata appunto con sfumature di colore differenti fra una copia e l’altra, rendendo ogni cd unico ed originale anche sul piano grafico.
Insomma, c’è chi decide di sperimentare prima di avere successo (leggi Franco Battiato) e chi decide di farlo per consolidare il proprio successo (leggi Beatles). C’è poi chi invece sperimenta e basta, con il rischio di allontanarsi dal successo stesso per potersi avvicinare di più all’essenza della propria autentica arte.
Grignani, nei dischi di fine anni Novanta, ha deciso di continuare a fare esattamente questo, dimostrando un’audacia davvero stupefacente.
I suoi Campi di popcorn (1998) sono forse l’apice di questa ricerca, che non ha mai finito di mantenersi tale. Nemmeno quando Grignani scelse di tornare a regioni e luoghi musicali più “classici”, come Sdraiato su una nuvola (2000) o Il re del niente (2005).
Nel mezzo e poi più tardi, gli svariati problemi di dipendenza e giustizia che sembrano essere diventati l’unico filo rosso in grado di accomunare le critiche gratuite sparpagliate a suo danno. Critiche che arrivano persino a coprire gli elogi di uno come Mogol, il quale aveva riconosciuto in lui l’erede naturale di Battisti, per la sua innata e mai retorica capacità espressiva.
“I ragni fanno i nidi sulle tue rovine come su un ramo” canta Grignani in Sogni Infranti, brano contenuto nell’ultimo album di inediti – A volte esagero, del 2014. Un verso che mi suggerisce sempre le atmosfere letterarie di Italo Calvino. Ma parlo del primo Calvino, quello de Il sentiero dei nidi di ragno appunto. E sulle rovine di Gianluca Grignani ci hanno fatto il nido in tanti, non solo in questi giorni post Sanremo.
Il guaio è che Grignani non si identifica affatto con le proprie rovine.
Laddove “rovine” è inteso qui nel senso più etimologico del termine: cadute, discese. Quelle “discese ardite” che lo stesso Battisti citato prima avrebbe contrapposto – in una sua celebre canzone – alle risalite di rimbalzo, che sempre accadono nella vita e che ci slanciano verso domani a volte migliori, altre volte peggiori dell’oggi. Fatto sta che però nessuno al mondo dovrebbe mai essere identificato con le sue cadute o con le sue salite. E nidiare sulle cadute degli altri ha il solo pregio di rendere ancora più misere le nostre, costringendoci forse a guardarci un po’ meglio nello specchio.
“Un viaggio ha senso solo senza ritorno se non in volo”
“In volo”, appunto: mentre chi fa il nido se ne sta fermo sul proprio trono di paglia. Chi sa osare, invece, chi cerca un barlume di riscatto anche solo rialzandosi e ricominciando a camminare, sta già volando verso una destinazione più luminosa. Quel “paradiso città” che ogni anima leggera, onesta e libera merita.
Estate 2021, le mie mani ondeggiano fuori dal finestrino e una voce proveniente dall’autoradio mi indica “orizzonti neanche troppo lontani” dentro il “girotondo di anime” che abita il mondo. E oggi, ripensandoci, mi meraviglio di come la storia di Gianluca Grignani possa essere custodita e ritrovata in un luogo simile a quelle mani esposte al vento: fra le dita cioè di chi – oltre ogni pregiudizio – sa accarezzarla.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.