Lucio Corsi, ovvero canzoni che ci salvano la vita
Le canzoni, fondamentalmente, sono una cosa seria. Sono in grado di creare degli altrove mentali entro cui rifugiarsi. Consentono di far chiarezza tra emozioni confuse, conferiscono lucidità e aiutano a mutuare le parole appropriate per descrivere quello che si prova. A volte, capita di ascoltare qualche canzone distrattamente, mentre si cammina e si pensa ad altro. Tutto a un tratto, si sente quasi un richiamo, e senza rendersene conto si finisce per prestare molta attenzione al testo a cui non si era mai dato peso. Ci si accorge della precisione chirurgica con cui racconta esattamente quello che da giorni cercavamo di verbalizzare. Come se quelle parole le ascoltassimo per la prima volta, quando magari è la centesima.
Ma le canzoni non fanno solo questo. In genere, sono un archivio personale protetto da una password a centocinquanta caratteri, e sono l’hardware dove sono depositati i ricordi. Condividerle è un dispendioso atto d’amore – e spesso, l’inizio di una serie di disastri, rimpianti, di “ti perdono per avermi rovinato la vita, ma non per avermi rovinato quella canzone”.
Tutto questo non è niente di nuovo.
L’ha detto prima, e meglio, di me Brunori Sas, parlando di canzoni che ti salvano la vita / che ti fanno dire no, cazzo, non è ancora finita. L’hanno detto anche molti altri, eh, però in modo un po’ meno efficace.
Quest’estate, ho scoperto un modo diverso in cui le canzoni ti possono salvare, che non ha molto a che vedere con quanto sopra.
Le cose in generale non andavano molto bene, e come al solito ho pensato che con la musica sarebbero potute andare un po’ meglio. La verità è che sono iniziate ad andare pure peggio. Ascoltare le canzoni mi infastidiva, il volume era sempre troppo alto o troppo basso, ogni melodia mi sembrava scontata, le parole non avevano nessun senso ed essere costretto a sentirle risvegliava in me nervosismi ancestrali.
Una volta avevo conosciuto un ragazzo che mi disse che secondo lui le canzoni erano cringe e che gli sembravano un’idiozia totale, e che per questo non ne ascoltava mai. Per qualche giorno, ho pensato che aveva assolutamente ragione, e che avevo vissuto bendato fino ad allora (poi l’allarme è rientrato, giuro).
Finché ho iniziato ad ascoltare un po’ di più Lucio Corsi
Le canzoni di Lucio Corsi sono un unicum nel panorama musicale italiano. Lontane dalla quotidianità dell’itpop e dall’erudizione tipica del cantautorato, raccontano storie di alieni, di animali, di dinosauri, di treni che sembrano capi di tribù indiane e di vento che soffia nelle città e porta con sé le persone troppo magre. Lucio Corsi, con un’enorme generosità artistica, mette a disposizione la sua sensibilità straordinaria e la sua voce calda e rassicurante per raccontare storie ricche di tenerezza. Una tenerezza che non è assassina, ma pacifica. Il mondo viene descritto tramite la lente dell’infanzia, in un ritorno all’innocenza che, si sa, a volte è necessario. Ma il motivo per cui le canzoni di Lucio Corsi mi hanno salvato, non ha molto a che fare con l’infanzia.
Le canzoni di Lucio Corsi mi hanno insegnato una cosa molto importante: che a volte, nella vita, bisogna usare l’immaginazione
A volte usare l’immaginazione stanca / ma è stancante anche chi non la usa – così canta in Senza titolo, brano tratto dal terzo album in studio Cosa faremo da grandi? Un manifesto programmatico molto chiaro. L’ossessione verso il reale è uno dei capisaldi della società capitalista del ventunesimo secolo. Il reale come unica verità è qualcosa di così ovvio e assodato che generalmente uno se ne dimentica. È pacifico che solo ciò che è reale può spaventare, entusiasmare, divertire – altrimenti, bisogna trovare una cura.
Quando ci si trova al bar con gli amici, si raccontano le proprie storie reali. I propri appuntamenti fallimentari, le discussioni a lavoro, quella cosa che abbiamo visto l’altro giorno per strada – non ci crederai, ma giuro che è vero. Basti pensare anche ai film o alle serie TV: essere tratti da una storia vera è una medaglia all’onore, una rassicurazione, conferisce dignità e credibilità. O per tornare all’itpop – la musica italiana, negli ultimi dieci anni, è stata invasa dal reale. Il Frosinone che era letteralmente in Serie A, il bingo che è realmente in via Washington, Gioia che è proprio la fermata prima di Centrale.
Se però momentaneamente con il reale non si va molto d’accordo, più che ostinarsi a farci i conti, è utile prendere l’immaginazione e andarsene da un’altra parte.
E Lucio Corsi, con l’immaginazione, è in grado di raccontare delle storie incredibili, da rimanere a bocca aperta. Ha iniziato a farlo nei suoi primi due EP, Vetulonia Dakar e Altalena Boy, rilasciati insieme in un album di dieci brani. Fu proprio durante questo periodo, tra il 2014 e il 2015, che conobbe Federico Dragogna, con cui iniziò a collaborare. E sempre in questi anni, iniziò a venire accostato a Renato Zero o a David Bowie.
In questi dieci pezzi ambientati tra la Toscana, Milano, Marte e lo spazio, Lucio Corsi diventa un surreale cantastorie. Racconta del primo uomo che fece il giro della morte in altalena e scomparve nel nulla – e nessuno, tra tutti coloro che erano al parco, vide niente. Degli alieni che arrivarono sulla terra, accolti da una popolazione armata, ma loro volevano solo la pace. Di un fioraio che raccontò che, proprio come i palazzi che segretamente vorrebbero essere grattacieli, anche lui vorrebbe essere alto, ma poi si ricorda che i piloti sono bassi e allora va bene. O ancora, di un uomo che ritornò in Toscana e scoprì, affranto, che i dinosauri si erano estinti. O di un altro che aveva la pancia, la schiena e la testa di cocomero, e quando ne aveva voglia si mangiava. Il sound è minimale, la produzione è varia ma scarna, pochi strumenti, essenziali ad accompagnare il timbro riconoscibile e l’intonazione impeccabile della voce. Alla fine dell’album, il reale è molto lontano.
Anche nel secondo e nel terzo album, le storie fantastiche di Lucio Corsi hanno continuato a stupire e a narrare con sbalorditiva precisione la vita su altri pianeti.
Nel secondo disco, Bestiario musicale, gli otto brani sono dedicati ciascuno a un animale. L’affinità di titolo con il libro Bestiario sentimentale di Guadalupe Nettel è evidente. A differenza dell’autrice messicana, gli animali qua non servono a delineare parallelismi per svelare le recondite sfaccettature dell’umano. Sono, invece, i protagonisti assoluti. Lo sono la lepre che arriva sulla Luna prima degli umani. L’upupa che partecipa a un movimento punk nella foresta assieme alle galline con le creste malviste dalla guardia di finanza. O ancora, la volpe che vuole diventare un uccello e prova a buttarsi da un albero, o la lucertola che è un drago, e sì, la gente se lo aspettava diverso, ma pure i draghi hanno dovuto adattarsi ai pochi spazi, ché ora è tutto un negozio / tutta una pizzeria.
Nel terzo disco, Cosa faremo da grandi?, entra in punta di piedi Francesco Bianconi, suonando mellotron, moog, prophet.
Il sound si arricchisce, discostandosi dal minimalismo del precedente, che arrivava a sfociare nello spoken word. I riff sono più articolati, intervengono sonorità orchestrali – senza togliere niente alla sublime poetica del cantautore toscano. Anzi, proprio in questo disco sono racchiusi alcuni tra i suoi gioielli lirici più preziosi.
Nella title track, racconta che le conchiglie furono create da un uomo sull’Isola d’Elba, che ci lavorò tutta la vita, e un giorno si stancò e le gettò in mare. In Freccia bianca, il treno che risale la penisola fino ad arrivare a Milano diventa lo spirito di un capo indiano. Amico vola via è il tragico racconto di un ragazzo così magro, che il vento se lo portava via, fino a sbattere la testa contro gli aerei e contro la luna – ecco il perché delle buche. O ancora, Trieste è questa volta un’ode al vento, che non rema contro ma è un amico della gente.
L’ultimo album in studio, “La gente che sogna“, uscito nel 2023, ha consacrato la capacità di Lucio Corsi di lavorare sui suoni, rendendoli più maestosi e regali ad accompagnare la sua epica.
L’ispirazione di David Bowie è più che mai presente in questo album. Racconta di astronavi giradisco, di viaggi nello spazio e di radio che appaiono in tutte le frequenze. Un album che ha l’enorme pregio di aggiungere un tassello all’anima di cantastorie giocoso di Lucio Corsi. Senza ripetere quanto già fatto, né scadere nel banale, né perdere capacità immaginifica. Diviso tra pop e glam rock, l’artista di Vetulonia ancora una volta è narratore di altrove immaginati, mutuando cori tribali, suoni catartici e strumentazioni molto ricche. Ridurre l’enormità di spunti di questo disco a una sola frase è sicuramente limitante. Mi perdonerà, tuttavia, Lucio Corsi. Perché una frase come se sarò polvere, che sia da sparo, non l’avevo sentita mai.
Insomma, di Lucio Corsi, potrei star qui a parlarne per ore
Potrei raccontare quello che certe storie significano per me, che non ho capito fino in fondo perché il cinghiale con il fuoco sulla coda sarebbe un meteorite, o del fatto che ascoltare Magia Nera sfrecciando in bici è un’esperienza sensoriale.
Ma come spesso capita, in queste situazioni – forse è il caso di lasciare che, a parlare, siano le canzoni. Io mi tengo la voglia di usare l’immaginazione, e la consapevolezza che magari a volte è stancante, sembra inutile, infantile – ma pensa a non usarla, come si vive male.
Foto in copertina di Marco Pacini
Filippo Colombo
Predico bene razzolando insomma, mi piace mangiare la pizza a colazione, odio i concerti dove si sta seduti.