Perché amiamo Brunori Sas: guida galattica per egonauti
La prima volta in cui ascoltai un brano di Brunori Sas ero seduta di fianco a una persona che odiavo, così dissi che mi faceva schifo. Probabilmente insultai Italian Dandy. Inutile dirvelo: adesso è una delle mie preferite. Forse perché anche mia madre sfogliava Novella 2000 e io ai suoi piedi leggevo Prévert. Forse perché dopo aver fumato una Pall Mall in un bar di Berlino avevo gli occhi lucidi. Di certo, avevo già scritto tremila poesie.
Amami come se fossimo ancora/In quel bar di Berlino a fumare Pall Mall/Amami come quella volta all’Esselunga/Quando in preda alla fame rubammo una baguette
E comunque sì, ho deciso di intitolare questo articolo parafrasando in modo discutibile il titolo del divertentissimo romanzo cult di Douglas Adams Guida galattica per autostoppisti. E l’ho fatto un po’ perché sono vittima anche io del citazionismo postmoderno (e sono in ottima compagnia tra Le Rane) e un po’ perché sia io che Dario Brunori abbiamo una certa ossessione lirica per le stelle, l’autonarrazione e la malinconia.
La verità è che non appena mi è stato chiesto di scrivere di Brunori Sas, ho pensato immediatamente alle galassie lontane, al vino rosso e alle chitarre scordate di quando si è adolescenti. Con quel rumore incredibilmente fastidioso che esce fuori dalle dita storte sui tasti, dalle unghie mangiucchiate e dalla fretta di arrivare al ritornello. Ma soprattutto al silenzio degli astri, ai viaggi interstellari. Ed è stato incredibilmente difficile concentrarmi sul mio incarico, perché ogniqualvolta cercavo di scrivere di lui, beh, scrivevo di me.
E di quella mattina in fila al supermercato, quando partì in radio La verità e io strinsi il pacco di carta igienica davvero troppo forte. Erano le prime settimane del 2017 e il singolo era già ovunque. Un’intera umanità credeva di aver trovato l’inno perfetto per la propria crisi generazionale. Tutti noi ci sentivamo come il protagonista della canzone, che partiva per scalare le montagne e poi si fermava al primo ristorante; avevamo tutti paura di scomparire nel caos delle incertezze, ci aggrappavamo a quelle quattro o cinque cose a cui già non credevamo più.
Te ne sei accorto, sì/Che passi tutto il giorno a disegnare/Quella barchetta ferma in mezzo al mareE non ti butti mai/Te ne sei accorto o no/Che non c’hai più le palle per rischiare/Di diventare quello che ti pare/E non ci credi più
Oppure di quella volta in cui vidi Marilyn Monroe su un poster per le strade di Napoli e mi venne voglia di chiederle quanto l’apparenza inganna e quanto ci si può sentire soli. E non provare più niente e non avere più niente da dire. Il 2014 erà già passato, con lui Kurt Cobain, Arrivederci Tristezza e Mambo reazionario. E ci sentivamo un po’ più tristi pensando ad A qualcuno piace caldo.
Sono trascorsi dieci anni dall’uscita del suo primo album Vol.1 e Brunori Sas è stato definito il nostro ultimo cantautore nazionalpopolare. E forse è vero. Dario è un cantastorie. Canta di quelle vite che non sono speciali, che un po’ te le devi inventare. Le vite come la nostra, con le giornate passate a giocare in un mondo inventato, le ginocchia sbucciate, il pallone bucato da un vicino incazzato. Racconta della nostra umanità liquida, baumaniana, di Salvini, di quanto in fondo sia un sollievo entrare d’estate nei centri commerciali. Di Frida Kahlo e Diego Rivera, di Paolo che voleva portare in giro la sua donna con la Panda, dei braccioli al mare. E siamo tutti lì: annoiati, amati, amanti, indecisi, tristi, malinconici. In continuo conflitto tra la metamorfosi e l’autoconservazione, tra il cielo stellato di Kant e la legge morale opaca dei nostri anni.
Brunori Sas è l’aedo di questa generazione di egonauti, persi in sé stessi, tra le galassie interiori e quelle misteriose del cosmo. E se è vero, come dice il filosofo americano Daniel Dennett, che l’io è narrazione, allora l’unico modo per viaggiare dentro noi stessi è raccontarci delle storie, perderci negli universi narrativi delle piccole cose. Seduti al bar, a pensare la vita, teorizzando il giusto numero di cazzate perché – si sa – è più facile restare al caldo dicendo qualche fesseria.
Tuttavia, dopo le stelle, la malinconia e il costume da torero, Brunori Sas torna nelle nostre vite ancora una volta: in un cameo del film L’ospite di Duccio Chiarini (il genio di Short Skin, per intenderci). Canta la sua nuova canzone, che si chiama Un errore di distrazione. Quello di una intera generazione, la nostra, così confusa, strappata e lacerata da spinte opposte, tra il restare e l’andar via, tra lo stringersi e lo sciogliersi, tra una vita stabile e la rivoluzione. O, come direbbe Recalcati, tra il bruciare e il durare.
Dario è al piano, la sua voce è calda come sempre, raschiata come sempre; intanto la vita di Guido (il protagonista della pellicola) si riduce alle notti passate sui divani dei suoi amici. La sua storia d’amore inciampa, vittima dei dubbi banali della contemporaneità, e lui è lì, è l’ospite. L’ospite degli altri e di se stesso. Intanto qualcuno canta:
Ma è solo un attimo/ Come dire, un errore di distrazione/ Di questo cuore sempre attento, a non fare un passo/ E a non essere mai convinto di niente/ È solo un attimo, lo giuro.
© Artwork di Chiara Zac