Questo articolo nasce dalla velleità di voler spiegare perché amiamo Calcutta e, soprattutto, il perché lo amiamo da sempre. Da buoni intellettuali possiamo dirvi che ovviamente alla fine del testo non troverete alcuna soluzione all’enigma, ma con un po’ di fortuna avrete letto una buona storia. Iniziamo.
La genesi: fughe, concerti con Madonne e faide tra amici.
Molti di voi probabilmente lo ricordano ancora. Quando nel 2015 apparve Mainstream nel panorama musicale italiano, il successo raggiunto oggi dal nostro cantautore era solo un pallido miraggio. Calcutta si esibiva in sale piccolissime, spesso nelle piazze di alcuni paesini di montagna. Aveva scritto pochi brani e alle volte li ripeteva in sequenza nei concerti per occupare il tempo.
Ricordo il mio primo concerto come se fosse ieri: Calcutta suonava di fianco alla statua di una Madonna in cima a un borgo lucano a me molto caro (lo stesso di Arisa, ndr). Era circondato da una coltre di scettici, che sostenevano di essere lì semplicemente per “capire questo che cosa combinava sul palco”. Ovviamente mentivano. Ogni volta in cui mi giravo per guardarmi intorno, la folla gridava a squarciagola. Scettici compresi, anche se cercavano di camuffare il labiale. Io, insieme ai miei amici, conoscevo già tutti i testi a memoria, ma mi vergognavo di dirlo in giro. Calcutta era davvero qualcosa di nuovo: lo amavamo già, ma facevamo moltissima fatica ad ammetterlo.
Sempre in quei giorni si leggevano sui social frasi come “Se vi piace Calcutta, vi cancello dagli amici”. Inutile dirvelo: di tutta risposta io cancellai gli autori dei post diffamatori in un attimo. Alle volte lo ascoltavo di nascosto e se qualcuno stava per entrare nella stanza abbassavo il volume o fuggivo in camera mia. Nei bar nascevano discussioni in continuazione tra i timidi sostenitori e i detrattori sanguinari. “Che schifo, Calcutta, ma come ti fa a piacere”, “Le posso scrivere anche io due canzoni sullo Svelto e su una svastica a Bologna” (Duchamp docet, ndr).
Il dio delle piccole cose.
Vedete, per capire perché amiamo Calcutta è necessario capire anche perché lo abbiamo odiato così tanto. Ho passato le ultime settimane a chiedermelo, rinviando la consegna di continuo. “Perché odiamo amare Calcutta?“, mi ripetevo persino mentre mi facevo le sopracciglia in bagno. E niente, non mi veniva niente. Nessun artificio retorico, nessun simbolismo esoterico. Niente, a me Calcutta piaceva e basta.
E farò un altro coming out.
Ogni volta che riascolto dopo tutti questi anni (always, ops) Cosa mi manchi a fare, una volta arrivata al ritornello, mi emoziono ancora. E so di non essere sola, perché molti, tanti di noi hanno vissuto quel momento in cui davvero volevano soltanto scomparire in un abbraccio. Mi succede lo stesso ascoltando Pesto, che è una delle mie preferite. Calcutta ha reso possibile assaggiare una sinestesia, scrivendo
Esco o non esco/ Fuori è notte e mangio il buio col pesto/ Non mi piace, ma lo ingoio lo stesso.
Ora, immagino che queste frasi possano sembrare incredibilmente banali. Tuttavia, quando le ascoltai per la prima volta capii immediatamente a cosa Calcutta alludesse. Quella sensazione che si prova mangiando una pasta al pesto a un orario improbabile, magari di notte, e che riflette l’oscurità del paesaggio esterno. E di quello interiore. A me è successo spesso di vivere così, soprattutto i primi anni di università. Mangiavo il buio col pesto anche io.
Per spiegarvi perché amiamo Calcutta da sempre, ho citato impropriamente un altro romanzo: Il dio delle piccole cose di Arundhati Roy. E l’ho fatto perché credo che sia questa la motivazione che ci spinge ad essere così vulnerabili davanti alle sue canzoni: la potenza delle piccole cose. Esattamente, vulnerabili. E non al cospetto delle vastità del cosmo o delle terzine dantesche, ma davanti a un trentenne in felpa che ci ricorda che abbiamo qualcosa di brutto alle spalle lasciato in un film; che tanto quella persona ci mancherebbe lo stesso, quindi che cosa ci manca a fare? O, peggio, che anche noi andiamo di corsa e non sappiamo perché (in realtà lo sappiamo, è il tardocapitalismo) e ci giriamo a guardare se abbiamo perso qualche parte di noi. Amiamo Calcutta perché ci annoiamo alle cene, ci annoiamo alle feste. Perché quando non laviamo i piatti con lo Svelto, ci sentiamo ribelli. Perché il mondo è un tavolo e noi siamo le briciole. Ma soprattutto amiamo Calcutta perché ci ha regalato un intero video in cui un bambino paffuto balla una canzone tristissima, quando questo trend era ancora un’avanguardia.
E per di più si fa anche fotografare con le capre.
La rima fiore-amore.
Concludo dicendo solo questo. Quando mi viene detto che è impossibile inserire Calcutta tra i cantautori del nostro Paese perché altri meritano questo appellativo, un po’ mi rattristo. La chiamo “fallacia ad Faber”, che è una forma di benaltrismo cantautorale. Ci sarebbe sempre ben altro che è degno di questo nome. Io su questo non sono d’accordo e me ne assumo pienamente la responsabilità.
Non credo che la vera forza dei nostri autori, almeno quelli storicamente riconosciuti, provenga interamente dalla complessità dei loro scritti o dalla perfezione delle loro musiche. Essa risiede anche, e soprattutto, nella capacità di restituire la complessità attraverso parole semplici, di mostrare la fatalità e la bellezza delle parole semplici. Calcutta in questo è incredibilmente bravo, è profondamente autentico.
A proposito di questa intuizione, cito sempre una celebre poesia di Umberto Saba. Se la scuola italiana non è del tutto fallita, dovremmo conoscerla tutti. In ogni caso, vi consiglio di rileggerla di tanto in tanto.
Amai trite parole che non uno osava./ M’incantò la rima fiore amore,/ la più antica, difficile del mondo./ Amai la verità che giace al fondo,/ quasi un sogno obliato, che il dolore/ riscopre amica./ Con paura il cuore le si accosta,/ che più non l’abbandona./Amo te che mi ascolti/ e la mia buona carta lasciata al fine del mio gioco.
© Artwork di Chiara Zac