Feng shui: antica pratica cinese, ausiliaria all’architettura tradizionale. Arte di collocare le cose.
Funk Shui Project: tentativo di collocare il funk al di fuori del proprio contesto naturale, al di là della sua comfort zone, per riadattarlo ad un altro contesto, quello hip hop. Decentramento di un genere attraverso combinazioni pressoché inedite, perlomeno in Italia. È forse questa la cifra caratteristica del progetto del collettivo torinese, sin dal suo concepimento, datato 2007.
Ma c’è di più. Questa abilità nel “(ri)collocare” è passibile di un’ulteriore considerazione: il mettere le cose al loro posto può essere inteso anche come il cercare di fare un po’ di ordine mentale. È il caso dell’ultimo album dei Funk Shui Project. Uscito nel 2018, con il siciliano Davide Shorty nel ruolo di lead voice, si configura come una vera e propria auto-analisi. Undici track/sedute di Terapia di gruppo tra coppie disfunzionali, momenti di apatia, gridi politici e risvegli di coscienza come “spruzzi d’acqua in faccia”. Il “miracolo”, se vogliamo, di questo lp è stata la comunanza di intenti, “perché tutti avevamo bisogno di affrontare le nostre paranoie e i nostri problemi e lo abbiamo fatto chiudendoci in studio e suonando insieme”. Nel posto giusto, al momento giusto, insomma. E soprattutto, con le persone giuste.
Storie in cui tutti possono riconoscersi, ma che cercano anche di trovare una qualche bellezza nello struggimento interiore. L’uomo, condannato ad essere libero, è necessariamente portato a sperimentare l’angoscia che da questo deriva: noi, e noi soltanto, siamo gli unici e veri responsabili delle nostre azioni, siamo noi che abbiamo la responsabilità di creare e scegliere un senso, e siamo sempre noi che spesso ce ne lasciamo sopraffare.
“Scrivo fiumi di parole/soluzioni per darmi buoni consigli che alla fine
non seguo mai./Non esco fuori dai miei guai, sembra ci provi gusto”.
Trascinarsi, andare avanti per inerzia, percepire passo dopo passo la pesantezza delle membra. I giorni si susseguono ma sembrano tutti uguali. Non resta che rifugiarsi in un piccolo angolo sicuro.
Adesso è solo un altro giorno
Faccio un altro passo ancora
È solo un altro brutto sogno
Ma questa stanza mi consola
Questa stanza mi perdona
Non resta che spegnere almeno per un attimo la testa, per far tacere quel martellante, imperterrito vocio.
Mi perdo tra le lenzuola
Non ho voglia di pensare più
Io non ho voglia di pensare più
Non ho voglia di pensarci più
Ma, appurata la condizione di naufrago della realtà, il gesto finale coincide paradossalmente con l’inizio, con quei due minuti e trentotto con cui si apre il disco. Accorgersi che spesso, il rimedio più efficace è anche quello troppo superficialmente sottovaluto: nell’effimera comunione dei corpi, nella consapevole scelta di abbandonarsi senza riserve quando è il momento, in un semplice abbraccio, “il peggio è già passato”.
18 Aprile – Funk Shui Project & Davide Shorty in concerto a sPAZIO211 / Torino
Artwork in copertina di @alegiorgini