10 anni che “Costellazioni” ci insegna ad accettare la vita come una festa
Pochi giorni fa, Vasco Brondi ha pubblicato Illumina tutto, il terzo singolo che anticipa il nuovo album Un segno di vita.
Sono passati più di quindici anni dagli esordi de Le Luci Della Centrale Elettrica. Certe immagini, nei testi dei brani, iniziano a riproporsi con un po’ troppa frequenza – quando in Coprifuoco ho ascoltato per la prima volta il verso “c’è un uragano con il tuo nome” ho pensato per mesi di aver trovato la verità rivelata; quando poco tempo dopo ho sentito “darò il tuo nome a centinaia di vie” in Cattive stelle, le mie pretese escatologiche si sono ridimensionate. Il passaggio dall’industrial alla new age ormai è compiuto, superato e non sorprende più. Dalla voce rotta e volutamente sgraziata che graffiava sui giri di chitarra degli inizi, si è passati alle produzioni ricche, agli strumenti tribali, ai computer, ai cori. E anche io, in mezzo a tutto questo, ho iniziato a cercare nelle canzoni altre risposte.
Nonostante tutto, però, mentre ascoltavo “Illumina tutto“, ho pensato che un antidoto a Vasco Brondi, io ancora non l’ho trovato.
E no, non intendo un antidoto che impedisca di sprofondare in una nostalgia che ben si conosce, ma mal si padroneggia. Ogni volta che ascolto una nuova canzone di Vasco Brondi, mi accorgo che il cantautore emiliano trova sempre, e trova ancora, il modo di comunicarmi qualcosa che ho voglia di ascoltare. E più che al me individuale, penso al me generazionale.
Precisamente, penso alla generazione di quelli che hanno più o meno finito il liceo quando è uscito, a Marzo del 2014, Costellazioni, il terzo album in studio de Le Luci Della Centrale Elettrica. Da buon amante della retorica degli anniversari, in queste ultime settimane l’ho ascoltato parecchio.
Di solito, si recensiscono i dischi appena usciti, sull’onda dell’entusiasmo delle release, rincorsi dalla FOMO e rubando, per arrivare super-primi, più di qualche frase ai comunicati stampa. Poi, due settimane dopo, basta, non se ne parla più ma non si ascoltano nemmeno più. Tocca sperare che finiscano nel ristretto novero degli album che fanno il giro e anni dopo diventano vintage.
Al contrario, parlare di un disco uscito dieci anni fa mi libera da quanto sopra. Ma non è solo questo: Costellazioni è un disco, sì, composto dieci anni fa, che però potrebbe essere stato scritto oggi. Non perché senza tempo, ma semplicemente per quanto sia stato, nei temi e nei suoni, un album futuristico, che nel 2014 era difficile capire a pieno.
“Costellazioni” fu un disco dalla gestazione molto complessa, che durò più di tre anni.
È anche un disco lungo, 15 brani, 5 in più dei due precedenti e del successivo. Quando fu rilasciato, segnò un duplice punto di svolta e di evoluzione rispetto a quanto Le Luci Della Centrale Elettrica avevano fatto fino ad allora.
Da un lato, le liriche si fecero molto territoriali – Venezia e le pianure del centro Emilia sono le geografie esplicite di quasi tutti i pezzi. C’è più narrazione, più racconto, ci sono i cieli e le stelle nel ruolo di indiscussi protagonisti. Rimane la decadenza e rimane qualche scenario urbano, ma sempre di più, nei testi, inizia a intravvedersi quella pace interiore che caratterizzerà Terra, il disco successivo. I tramonti nelle zone industriali, le macchine in fiamme, i licenziamenti dei metalmeccanici sono solo un lontano ricordo.
Dall’altro, il lavoro sulla parte musicale fu una novità, a cominciare dalla produzione, in carico a Vasco Brondi con la stretta collaborazione di Federico Dragogna. La versione finale dell’album fu un mix tra una prima demo, in cui Dragogna e Brondi suonarono qualcosa e lasciarono il resto al computer, e una seconda, registrata invece interamente in presa diretta con una grande band.
Le canzoni, per ammissione dello stesso cantautore, vennero scritte partendo dalla ritmica, e non più dalla chitarra. Gli strumenti e i musicisti sono tantissimi. Rimangono Rodrigo D’Erasmo al violino elettrico, Enrico Gabrielli al pianoforte e Stefano Pilia alle chitarre. A loro, si aggiungono il contrabbasso, la fisarmonica, il moog, l’armonium, il corno inglese, il trombone – e la lista è ben più lunga.
Soprattutto, però, è un disco di 15 canzoni, ciascuna con un peso specifico non trascurabile.
Si apre con La terra, l’Emilia, la luna, una specie di manifesto programmatico. Sotto un cielo d’argento tra la ferrovia e la nuova moschea, recita il testo, che riprende sugli stessi registri sui quali si era interrotto il disco precedente. Rispetto a Le ragazze kamikaze, epilogo di Per ora noi la chiameremo felicità, la ricchezza della produzione è qua evidente, e costruisci un tessuto ritmico complesso sul giro di chitarra, che rimane lo scheletro del brano. Segue Macbeth nella nebbia, il secondo prologo, un brano rarefatto tanto nel testo quanto nei suoni. La drammaticità nella voce cresce fino a rompersi in una serie di grida, sul finale, smorzate dal riverbero.
È da qui che Costellazioni inizia a prendere il volo.
Andare in ordine canzone per canzone è una noia mortale per chi scrive, che si trova incasellato in binari molto stretti, ma soprattutto per chi legge, perché sfido chiunque a trovare una recensione che non abbia descritto un disco come “un viaggio”. Permettetemi, dunque, qualche curva non preventivata.
Vasco Brondi prende appunti da Lucio Dalla, e in “Le ragazze stanno bene” narra in terza persona la storia d’amore tra Chiara e Sara. Si sono allontanate, si sono cercate, e ora sono vicine e libere di amarsi nel loro osservatorio astronomico su una scala anti-incendio. I giri di chitarra acustica sorreggono una narrazione così tenera e così intima che quasi fa paura. A questo brano, va il merito di aver insegnato a non so quante ragazze e a quanti ragazzi, accecati e paralizzati dalla paura o dai pugni troppo stretti, che alla fine, il loro, non è un amore poi tanto diverso.
I Sonic Youth, che parte al pianoforte e si chiude con l’entrata degli archi, è una fotografia alla De Gregori. Narra il silenzio dei piccoli paesi di provincia, ed al tempo stesso è un’ode a chi prova a fare rumore nel modo più pacifico che c’è – con la musica. Punk sentimentale ha un tempo che va in crescendo, mentre anaforicamente Vasco Brondi racconta una serie di cose strane. Strane le economie emergenti, il rapido declino dei calciatori e dell’occidente, questa cosa che respiriamo e poi smettiamo di respirare – ma alla fine, la cosa più strana è riuscire a sentirsi innamorati.
A differenza degli album precedenti, in Costellazioni c’è spazio per cantare a gran voce e quasi per ballare.
Il coro iniziale ne I destini generali sembra chiamare un battito di mani. Ti vendi bene possiede l’inciso più esplosivo dell’intera discografia di Vasco Brondi. Firmamento è un rapido e catartico post-punk di Piromani-memoria. Questo sconto tranquillo è una ballata super ritmica e super accentata. E tra invettive contro la contemporaneità iper-connessa e racconti alla Rino Gaetano, Costellazioni volge verso l’epilogo.
La chiusura del disco è affidata a due brani, a modo loro, rivelatori.
Una guerra lampo pop è il penultimo. Solo il presidente si chiede chi abbia autorizzato questo temporale, ripete l’artista alla fine del ritornello, e a sentirlo oggi fa quantomeno sorridere. Anche se fecero un deserto e lo chiamarono pace, invece, sono i versi conclusivi – ed ecco, spero ora sia ben chiaro perché dicevo che l’album sembra scritto oggi.
In 40 km, titolo di coda, il cantautore ci regala alcune delle immagini testuali più riuscite della sua carriera. Qui dove le rondini si fermano il meno possibile, qui dove tutto mi sembra indimenticabile – così recitano gli ultimissimi versi dell’album. E io penso che ci sia ben poco altro da aggiungere.
Al di là dei pesi specifici delle singole canzoni, dell’evoluzione dei tratti caratteristici testuali, musicali, ritmici e produttivi, “Costellazioni” è un disco importante.
Per un’intera generazione, è stato un ponte di prima maturità, dalla rabbia e dal disagio fini a se stessi (nel senso letterale, e com’è giusto che sia) dei tempi della scuola, a qualcosa di un po’ più costruttivo, senza però abbandonare le velleità e gli alibi mentali come unici luoghi di felicità e di verità. Costellazioni è un album politico, lo era allora ma lo è soprattutto, e anche, oggi. È un album che parla d’amore e delle più irriconoscibili morfologie che può adottare, dell’Italia, dell’astronomia, di posti lontani e di posti irraggiungibili. È un album che parla delle strade per la felicità, degli intralci che le possono ostruire e di come aggirarli. Ma alla fine, in mezzo a tutto questo, quello che possiamo fare è molto semplice: basta accettare la vita come una festa, come in certi posti dell’Africa. E dischi come questo, danno una mano.
Filippo Colombo
Predico bene razzolando insomma, mi piace mangiare la pizza a colazione, odio i concerti dove si sta seduti.