Buon compleanno alle guerre da affrontare dei Sick Tamburo
Il 3 Giugno 2014, esattamente dieci anni fa, usciva per La Tempesta Dischi il terzo album in studio dei Sick Tamburo, Senza vergogna. Dopo il primo lavoro omonimo e A.I.U.T.O., la band di Elisabetta Imelio e Gian Maria Accusani compì una virata dal punto di vista della produzione, dei testi, ma soprattutto delle intenzioni. Mantenendo visibili una serie di rimandi evidenti tanto ai dischi precedenti, quanto ai Prozac+, la band con epicentro a Pordenone iniziò a scavare con maggiore veemenza nei meandri della psiche umana, esorcizzando stranezze, manie e piccoli dolori personali.
Gli anniversari degli album offrono sempre un ottimo pretesto per riascoltarli e sentire come suonano a distanza di anni – se sono rimasti intrappolati in sonorità e contesti ormai desueti, o se invece hanno ancora qualcosa da raccontare. Ma non solo. Fungono anche da pretesto per tirare qualche somma sullo stato della scena musicale, e per provare, in retrospettiva, a inserirli in qualche tipo di corrente. Più per riflettere su alcune evoluzioni, che per omaggio alla storia dell’arte.
“Senza vergogna” uscì in un periodo di transizione.
Proprio in quell’anno, Vasco Brondi raggiungeva una personale consacrazione con Costellazioni, e fu pubblicato Fuori campo dei Thegiornalisti. L’anno prima venne rilasciato Glamour dei Cani, e solo due anni più tardi sarebbe comparso sulle scene Mainstream. A guardarlo da qua, dieci anni dopo, appare evidente come Senza vergogna sia stato una delle ultime voci di un preciso di modo di essere della musica italiana.
Il malessere raccontato nel disco è poco didascalico e non estremamente specifico, a leggere i testi. Invece, è comunicato con i suoni sporchi, con i giri di basso e di batteria che scandiscono il ritmo costante in tutto il pezzo, con il martellante incedere sontuoso di certe canzoni. Le parole si ripetono, ci sono i ritornelli, ci sono molte metafore, e le scelte lessicali rimandano agli Afterhours – per quanto meno crudo – o ai FASK. Da lì in poi, il disagio dell’indie italiano iniziò a diventare quotidiano, concreto, preciso, situazionale. Un disagio minuziosamente descritto. Arriveranno i racconti del Frosinone in Serie A, le scuole di danza nello stomaco, la nazionale del 2006. Nelle canzoni entreranno le buste blu della Tesco e la coca zero, e non sarà pubblicità ma oggetto di scena.
In “Senza vergogna”, c’è ancora spazio per l’immaginazione e per poter traslare le canzoni nella propria vita un po’ come ci va.
Non è che sia un disco astratto e slegato dalle cose della vita. Semplicemente, le narrazioni mantengono un livello di simbolismo e di non immediatezza. È un disco che forse può suonare monocorde – la voce di tutti i pezzi è affidata al solo Accusani, i giri di basso e di batteria alla lunga sembrano ripetersi – ma che nonostante tutto è importante. È un album che sancisce il raggiungimento della maturità dei Sick Tamburo. Gli echi dell’elettronica e del punk dei Prozac+ e dei primi lavori risuonano nitidi, ma la sterzata verso l’approccio cantautorale è palese. Lo sono i testi, delicati e poetici. Lo sono i suoni, con la melodia che ha molto più spazio. E lo sono gli arrangiamenti, con le distorsioni sempre meno presenti. Non è un disco felice: al contrario, è un disco aspro, di malessere e di mostri interiori. È un album che cresce a ogni ascolto, via via che i pezzi si sedimentano.
La copertina fu disegnata da Davide Toffolo, ospite anche nel brano centrale, e singolo di lancio, “Il fiore per te”.
Senza vergogna battezza ufficialmente i Sick Tamburo all’interno delle rock band italiane. Non è più un side project dei Prozac+, ma una realtà solida, viva e dall’identità precisa. Perfettamente collocata all’interno del cantautorato ruvido degli anni duemila. La voce di Accusani, con un’inflessione che sembra quasi masticare le parole, più che mangiarsele, diventa un’antonomasia e un riferimento. I Sick Tamburo, in Senza vergogna, obbligano a fare i conti con i fantasmi dell’alcolismo, dell’amore non corrisposto, dell’emarginazione e degli attacchi di panico. Chi lo ascolta rimane imprigionato, non può scappare: prendere atto di tutto quello che capita nella propria testa è un imperativo, sopravvivere un atto di coraggio.
Tuona il cielo / rulla il mio tamburo: queste le prime parole di “Qualche volta anch’io sorrido“, opening track.
Un incedere deciso e ritmato: è una guerra, ognuno ha quella personale / è una guerra, ognuno la deve affrontare. Le intenzioni sono chiarissime, i suoni sono sporchi. L’album parla di questo: da ridere non c’è quasi niente, da sorridere c’è poco. Segue Prima che sia tardi, unico brano in cui compare la voce di Elisabetta Imelio. Con canti e controcanti, compaiono le manie e le stranezze in chiave cupa. Si sentono echi ai dualismi dei Baustelle, quando Rachele Bastreghi e la sua vocalità spettrale riverberano le parole di Bianconi.
L’uomo magro è una storia di emarginazione e solitudine in chiave elettronica, e proprio questa canzone spiega benissimo quanto dicevo sopra sulle parole masticate. Quando bevo è una canzone composta da schiaffi punk perfettamente Prozac+, che riesce però a non scadere nell’ovvio.
Il giro di boa del disco è Il fiore per te, con Davide Toffolo, che inizia con la voce sola su un arpeggio di basso. È un viaggio a ritroso tra i discorsi di una relazione terminata, dalle case in cui si voleva abitare, alla banalità dei discorsi sul tempo. Ma non è solo questo che manca: la faccia che diventava rossa all’arrivo del primo sole, i balli impacciati, la passione per le foto – non c’è più niente di tutto questo. O meglio, c’è, ma con qualcun altro.
Quando si ascolta il disco di fila, l’attenzione può iniziare a calare nella seconda parte – motivo in più per cui tornare a questo album.
Non è che la qualità dei pezzi sia inferiore, e forse dieci anni fa le soglie dell’attenzione erano più alte e il problema non si poneva. Niente ti dipinge di blue – come il titolo tradisce – è uno dei pezzi più tristi. La produzione più distorta dell’album accompagna una narrazione di attacchi di panico e traumi giovanili – a tredici anni fumavi in casa con tua madre / con la scusa che di nascosto non si fa. Ho bisogno di parlarti è invece il brano più situazionale del disco. Il malessere è raccontato con l’immagine del mangiare troppi dolci fino a nausearsi, topos letterario che resiste tutt’oggi con immutata carica espressiva – Mitski quasi sicuramente non ha ascoltato i Sick Tamburo, ma in I don’t like my mind, brano più introspettivo dell’ultimo album, utilizza questa stessa immagine.
Se muori tu forse aggiunge poco all’economia generale del disco, ma ascoltata dieci anni dopo, con la lente del futuro, fa venire i crampi allo stomaco. Se muori tu / io che farò – canta la voce di Accusani, e forse è ingiusto attribuirle significati anacronistici relativi ad Elisabetta Imelio, forse è sbagliato, forse non si deve fare. Oggi, però, la mente inevitabilmente va lì, e la potenza di questo pezzo si centuplica.
Se oggi si parla dei Sick Tamburo come di una realtà della musica italiana, Senza vergogna possiede certamente il merito di averla iniziata e consolidata. Un album di transizione, lo abbiamo detto, che ha potuto esistere proprio nella ristretta cronologia in cui è stato rilasciato. Poco prima o poco dopo, probabilmente non ci sarebbero stati i presupposti per accoglierlo e per scriverlo. Buon compleanno, dunque, a questo splendido racconto degli spettri e delle manie che popolano la mente, e di come combatterli – o, almeno, di come conviverci. Le guerre personali che ognuno deve affrontare, in un decennio, sono per molti cambiate. Quali che siano, quest’album rimane lì per offrirci un supporto mentre, volenti o nolenti, le affrontiamo. Meno male.
Filippo Colombo
Predico bene razzolando insomma, mi piace mangiare la pizza a colazione, odio i concerti dove si sta seduti.