Carmen Consoli: la cantantessa che abbraccia la femminilità “silente” delle donne
Quando con la Redazione de Le Rane abbiamo deciso di rendere omaggio alla carriera di artisti che (fortunatamente) hanno costruito il loro successo già prima della nascita del nostro blog, non potevo non accaparrarmi la mia omonima per eccellenza: Carmen Consoli.
Una sera d’estate mi stavo preparando per uscire con la tv in sottofondo. Mi cade l’occhio sullo schermo, su suggerimento delle orecchie che avevano riconosciuto Carmen. A colpirmi, più che l’atmosfera anni ’90, era il suo atteggiamento. Quel modo sicuro e fiero di impugnare la chitarra, sottintendendo una famelica e al contempo misurata voglia di mangiarsi il palco e gli occhi di un pubblico e di uno spettatore che ancora oggi fatica a rassegnarsi all’immagine di una femminilità agguerrita e composta.
Ascoltare ogni album di Carmen Consoli richiede concentrazione.
È chiaro fin da subito che la sua musica non è fatta per chi cerca un frugale conforto dal tedio della normalità. Carmen Consoli nei suoi dischi non gioca, non si traveste ma indossa puntualmente con nuda attenzione i panni di prostitute, donne ferite stuprate, non solo carnalmente ma anche nell’anima. E se gli arrangiamenti incalzanti rendono ancora più estenuante il suo “grido”, lei sembra però non perdere mai la sua identità e la sua essenza.
È in questo chiaro d’insieme che la sua indole risulta lampante, come l’ambasciatore che non porta pena.
Carmen con la sua misura e la sua coerenza è il messaggero perfetto per testimoniare l’intimo segreto che definisce la forza delle “femmine”. Basti pensare a quelle che vestono per anni di pudore i soprusi subiti, o a coloro che rinunciano alle loro libertà in attesa che ci sia la giusta luce che sia in grado di rivelare il loro muto dolore.
Amore mio non è una colpa il non saper gestire la gioia e il fatto di trovarsi a proprio agio nel dolore e nella rassegnazione. Ed è innaturale come a volte ci forziamo di ignorare il gemito costante delle nostre reali inclinazioni il margine di errore di un’incessante sottrazione.
Ma il merito (o lo svantaggio, fate voi) dell’arte di Carmen è che essa non ha bisogno di compassione, pietismo o autocelebrazione pleonastica. Perché la cantantessa catanese con la sua voce e la sua penna le parole le addomestica (un’inclinazione che ricorre spesso nei suoi testi) per fornire prove concrete della sua necessità di vivere la vita ribellandosi ai dettami di un’italianità che punta il dito sullo schermo, inseguendo una popolarità che si alimenta “fuori dagli schemi” (Disegnati chissà da chi…).
Carmen è una Donna che alimenta con coraggio e determinazione le sue radici siciliane, atmosfere esoteriche (Canta in arabo, duettando con Battiato) e cadenze marcate e a volte quasi provocatoriamente accentuate, portate in giro per il mondo, da Roma a New York, dall’Etiopia ai teatri. Per sapere sempre dove e tornare: la sua Catania.
Quando ho sentito per la prima volta in radio l’appellativo “Cantantessa”, mi sono indignata.
Perché sono stanca del perbenismo, del femminismo che non significa niente, delle parole inventate o svilite del loro significato più profondo per diventare qualcosa che non esiste nella realtà. O che diventano etichette maliziose che si allontanano dai concetti di cui dovrebbero essere bandiera. Poi mi sono presa del tempo per ascoltare e per capire che quell’appellativo se l’era guadagnato sul campo, per questa sua indole abissale che le consente di accarezzare con le parole le fragilità umane, conferendogli una dignità, talvolta protetta dal sarcasmo talaltra da una ridente malinconia.
A confermare la sua natura di vate e ambasciatrice ci pensa l’album “Eva contro Eva”.
Se la nella title track il riferimento alla Genesi vuole essere un agile appiglio per risaltare l’animo volubile e voluttuoso di certe donne, l’impressione generale che traspare ascoltando l’intero disco è che Carmen Consoli si faccia, ancora una volta, testimone e messaggera di un tempo e di una realtà che vive come quello che le scienze sociali definiscono un osservatore partecipante o, ancora meglio, un testimone privilegiato.
Guardami negli occhi. Spogliati da ogni falsità. Quell’aura di purezza tradisce diaboliche anomalie. E sai di cosa sto parlando, di cosa ho bisogno. eppure avrai il coraggio di chiamare l’evidenza “casualità”. Bramosia e doppiezza complottano con la più efferata crudeltà e sai di cosa sto parlando e che mentire non e il rimedio ad un torto
Ecco allora che la cantantessa presta la sua voce a “Maria Catena”. Una donna la cui identità è corrosa dal pettegolezzo e la cui anima è dilaniata dal senso di colpa che paradossalmente l’unico che riesce a espiare è proprio un Gesù che non si fa carne ma diventa di gesso. A fare da complice un arrangiamento bucolico di flauti e chitarre, quasi a voler ridicolizzare e infierire sulla fotografia di una fetta di Sicilia ancora culturalmente ferma agli anni ’50.
Cristo in croce sembrava più infastidito dalle infamie che dai chiodi. Maria Catena, anche tu conosci quel nodo che stringe la gola. quel pianto strozzato da rabbia e amarezza da colpe che in fondo non hai e stai ancora scontando l’ingiusta condanna nel triste girone della maldicenza e ti chiedi se più che un dispetto il tuo nome sia stato un presagio.
Prosegue in questa direzione “La dolce attesa” che cela attraverso un titolo tendenzioso una intenzione ossimorica.
Difatti la canzone affronta lo spinoso tema della gravidanza isterica e questa volta la protagonista è una donna che in preda ad un esaurimento nervoso, non riesce ad accettare la crudeltà di una realtà che tutto si rivelerà, fuorché dolce. Il contesto che Carmen descrive è sempre quello che pretende di racchiudere la femminilità in certi canoni: “avere figli per vedere pienamente realizzata la sua essenza” per poi discolparsi e renderla sia vittima che carnefice, di sé stessa.
Al nono mese di gravidanza isterica tutti mantennero la messa in scena invariata per viltà. Sarebbe stata questione di giorni ed avrebbe chiarito da se l’increscioso equivoco di cui era la sola ed unica artefice mentre aspettava il lieto evento che mai avrebbe avuto luogo.
Man mano che le tracce scorrono, diventa sempre più palese la critica a quello spirito curioso e maligno alla maniera in cui lo intendeva Hidegger.
“Sulle rive di Morfeo”, è il canto, la celebrazione di un amore anelato, sognato, implorato.
Sguardi famelici implorano un piccolo assaggio di vita altrui. Prima dell’alba potrebbero sorprenderci rapiti da un sogno dove nitide acque divorano i nostri passi sulle rive di morfeo. Ci stanno accerchiando ed avanzano con passo accorto come belve in agguato. Fuggi Romeo, il tempo è tiranno, non è d’usignolo ma di allodola il canto.
Carmen Consoli impugna la sua chitarra e nel farlo ci costringe a dispiegare le pieghe dell’anima e a indugiare sui segni inestinguibili dei dispiaceri, dei malesseri che ci si annidano dentro e si assopiscono per anni. E del tempo che ci ricorda che, nel bene e nel male, sarà sempre lui a decidere per tutti. Ecco perché per elogiare la fine, diventa una anziana signora con addosso un cappotto verde e le scarpe rosse in attesa di ricevere notizie del figlio partito vent’anni prima per il fronte:
Sembrava fosse giunto un angelo a farle visita. Aveva occhi grande e un corteo di nuvole contornava enormi ali bianche, celestiale sembianze, intensi occhi grandi custodi di un addio.
“Tra tutti i giorni in cui potevi morire, perché hai scelto proprio il lunedì?”
Così esordisce “Elettra” vincitore della targa Tenco come migliore album dell’anno e del Premio Amnesty International grazie alla canzone “Mio zio” che racconta la violenza perpetrata nei confronti di una bambina. “Mandaci una cartolina” è una canzone che Carmen Consoli non avrebbe voluto scegliere, ma di fronte a certi dolori non possiamo far altro che fermarci e dar loro ascolto. E Carmen lo fa scrivendo quella che sembra a tutti gli effetti una lettera di saluto, scritta il giorno della morte di suo padre. Pare quasi di poter vedere le dita che sfiorano le corde dell’anima immaginando un uomo coi capelli d’argento seduto sulle spiagge catanesi a godersi il sole d’estate.
“Col nome giusto” è il saluto al calore dell’estate e a quelle carezze paterne di cui parlavamo poc’anzi
Spero che un giorno smetterai di fare confusione tra il dolore ed il piacere, la paura ed il bisogno di ferire. Son certa che un giorno chiameremo tutto questo col nome giusto e ritrovata serenità.
Se Elettra decidesse ad un tratto, senza alcun preavviso, di arrivare fino a noi, concedendosi un viaggio nei nostri poco confortevoli giorni, che cosa avrebbe da dirci?
Una figura del genere, al tempo stesso prefigurazione e compimento di idee sempre nuove, che abiti sceglierebbe di indossare? Quale messaggio ci affiderebbe? Eroina borghese, pazza sanguinaria, matricida e poi, ancora, rivale della sua stessa madre nella descrizione del complesso che porta il suo nome. Un simbolo dal carattere difficile e le potenzialità infinite soprattutto perché dietro di esso è possibile nascondere il vero protagonista dell’intero album: l’amore. Anche in questo caso però si tratta di una ricerca che prende in considerazione mille maschere ed altrettanti modi di essere del sentimento. I ruoli e le passioni si rincorrono attraverso le canzoni fino a vestire i panni della vittima, l’assassina, la straniera.
Con queste premesse tratte dalla sua autobiografia bisognerebbe ascoltare “Elettra” la prostituta di cui Carmen Consoli si fa messaggera, come annunciavamo all’inizio, descrivendo da narratore onnisciente le fasi di “preparazione” che precedono il “rito”. Quell’altalenare tra stato di grazia e sfiancante passione/quel giovedì sera alle dieci e quaranta/un confuso languore, l’odore di neve forse era ansia di prestazione/il colmo per una che fa quel mestiere.
Questa apparente ironia che permea quasi sempre le sue canzoni restituisce un senso di realismo ai suoi testi, agli immaginari nei quali vuole invitarci entrare.
Quel realismo di Verga al quale lei stessa ha dichiarato di ispirarsi per descrivere personaggi, protagonisti e figuranti, colti nell’esprimere i loro vizi, le loro colpe, i loro abissi, le loro brutalità. Questa verosimiglianza si acuisce nella scelta di terminologie che si allontanano dal lessico del parlare quotidiano per assumere una cadenza lenta, inesorabile che chiede e si impone all’attenzione di chi ascolta.
Cari signori brindo a tale rozza illazione poiché mi diverte il pregiudizio borghese. Perché guastare tale atmosfera gioviale con la tensione? Brindiamo all’amore materno, filiale, carnale. Brindiamo all’amore promiscuo, fedele e spirituale (VentunodieciDuemilatrenta).
‘A finestra è una filastrocca nella quale Carmen diventa addirittura una antropologa per sfoggiare fieramente il suo dialetto catanese e raccontare con gli occhi di una signora affacciata sul balcone la visuale di un mondo schiavo dell’autocelebrazione di sé stesso:
Gente ca s’ancontra e dici “ciao” cu na taliata. Genti ca s’allasca, genti ca s’abbrazza e poi si vasa. Gente ca sa fa stringennu a cinghia, si strapazza e non si pinna, annunca st’autru ‘nvernu non si canta missa. Genti ca sa fa alliccannu a sadda, ma ci fa truvari a tavula cunzata a cu cumanna. Chi ci aviti di taliari, ‘un aviti autru a cui pinsari o almeno n’pocu di chiffari?
Insomma, alla luce di quanto abbiamo raccontato, dire che Carmen è “La cantantessa” risulta per noi decisamente riduttivo, così come ripercorrere tutti i suoi riconoscimenti, i premi, i dischi di platino.
Significherebbe racchiudere il senso e il valore dell’arte in una serie di premi e trofei da esibire. Quello che abbiamo voluto fare noi, in questo viaggio che certamente non pretende di essere esaustivo è adottare un punto di vista. Adottare una prospettiva per rendere omaggio alle mille sfaccettature di un’artista eclettica che celebra l’amore in ogni sua forma. Un’artista che mette alla ribalta i retroscena delle violenze carnali, di fragilità e dolori che per pudore non abbiamo il coraggio di guardare. Ci invita a prendere dimestichezza con un altro volto della femminilità, senza chiederci di essere indulgenti ma di provare a comprendere mettendo da parte i nostri giudizi di valore.
L’aspetto affascinante della sua personalità che rimane sempre un po’ velata è la sua capacità di autodeterminarsi tenendosi lontana dagli esibizionismi. Mentre in Italia è ancora infuocato il dibattito tra chi dice che la famiglia è una e chi riconosce la natura multiforme dei legami (perché per fortuna famiglia non è solo quella che ti mette al mondo) lei è andata a Londra per avere un figlio con la fecondazione assistita.
“Non volevo illudere nessuno, né dare a mio figlio una famiglia che si sarebbe sfasciata. Mi sono informata, ho letto studi su ragazzi ormai maggiorenni nati con la fecondazione assistita da genitori single. Con il giusto amore, e i punti di riferimento, crescono come ragazzi di famiglie etero cosiddette normali. Andai allora a Londra, dove è possibile fare la fecondazione assistita con il non anonimato del donatore. Carlo potrà sapere chi è il padre, se vorrà”. Ha dichiarato in una intervista al Corriere.
Cosa c’entra questo con la musica? Direte voi. Tutto.
Tutto, se considerate la musica non è solo un sottofondo che rende sopportabile la vita, ma una forma espressiva che nella sua continua mutevolezza non fa altro che dirci che per quanti siano le prove e i tormenti coi quali dovremo confrontarci, ci saranno sempre dei motivi che ci spingeranno a viverla: che siano gli occhi di tuo figlio, l’amore che non hai avuto il coraggio di confessare o quello che ti ha fatto sentire bella, non solo per ciò che avevi addosso, ma per quello che ti porti dentro. L’amore che sopravvive agli anni, alle abitudini, alle cene coi parenti. O che si annida nelle rughe del volto e aspetta paziente un ricongiungimento, in un indefinito altrove…
Grazie Carmen, ti auguriamo di avere sempre “l’abitudine di tornare”.