Prendi un ragazzotto molto timido, col capello ribelle, un po’ brillantinato, lo sguardo corrucciato. Nel pieno delle sue vialate notturne tra i portici bolognesi, esce dal centro silenzioso e si accinge fuori le mura. C’è un’osteria, in via Musolesi angolo via Fabbri, aperta dalle 6 del mattino alle 5 del mattino seguente. È la tana di Guccini, di Bonvi, di Dalla, di Gaber, ogni tanto passano a mangiare qualcosa o semplicemente a passare le nottate anche Red Ronnie, Renzo Arbore, Mariangela Melato, Carmelo Bene, Dario Fo. È una tappa necessaria. Si parla di filosofia, di sport, di vita, di politica. In quegli anni ardenti, incendiati ancor di più dal 2 agosto 1980. Il ragazzotto, col capello ribelle brillantinato e lo sguardo corrucciato, non era molto distante dall’ala ovest della Stazione di Bologna, quel giorno. L’afa che percepisce anticipa un boato e poi un vuoto d’aria immenso. Un respiro mozzato, un’apnea difficilmente dimenticabile anche a distanza di 40 anni.
Il commendatore, la band e il “cinno“
Sono anni unici, in cui il futuro è un’esigenza, la stabilità un demone. Il ragazzotto si chiama Luca, la Cirenaica l’ha girata centinaia di volte, prima di combattere la sua tremenda timidezza e varcare la scritta “Osteria da Vito”, posta sulla vetrata dell’ingresso. Dentro il locale, in una delle tante sere del 1981, c’è Lucio Dalla assieme agli Stadio. Sono riuniti per decidere il primo disco della band di Gaetano Curreri. Dalla è il cantante del momento, sono passati giusto due anni da “Banana Republic” in tandem con De Gregori.
Ma l’istrionismo di Lucio e la voglia di ampliare i suoi orizzonti non sono acquietati dal successo incredibile, che lo rende un vero e proprio fenomeno culturale. Si è già attorniato di Ron, che a 17 anni strimpellando la chitarra su una nave (battente bandiera italiana, sigh) diede vita a “Piazza Grande”. Dalla è alla ricerca degli autori per i testi degli Stadio. Di gente “Da Vito” con le cassettine in mano ce n’è quasi ogni sera, provini su provini. Luca Carboni però è diverso da tutti gli altri. Appena entra si avvicina al tavolo di Dalla, non è il classico “cinno” appariscente che cerca di rubare l’attenzione. La sua timidezza lo precede, quello che ha da dire è scritto sui fogli che consegna al tavolo, assieme a un numero di telefono: il suo. Luca Carboni nasce a Bologna il 12 ottobre 1962, la prima volta. Ma forse quella sera del 1981, “Da Vito”, è nato una seconda volta.
Ci stiamo sbagliando ragazzi
noi che camminiamo sul mondo
noi coi piedi di piombo
restiamo giù
sotto cento chili di cielo
eh… siamo forse degli angeli
Quali dinamiche abbia il destino non ci è dato saperlo
Il giorno dopo quel fatidico incontro Luca è in studio con gli Stadio, un anno dopo esce il suo primo pezzo scritto per la band di Curreri, “Navigando Controvento”, tre anni dopo esce il suo primo disco. “…Intanto Dustin Hoffmann non sbaglia un film” ha uno strano miscuglio, unico per un primo disco assoluto. Curreri e Liberatori ci mettono il suono degli Stadio, Ron collabora ai cori e al pianoforte. Ma è dalla seconda traccia del Lato A del 33 giri che si nota la presenza di uno strumento inconfondibile, guidato dalla bocca e dal genio di una persona in particolare. La scorgi non tanto in “Amando le donne”, né tanto meno in “Li vedi”, quanto in “Fragole buone buone”, il primo tormentone vero e proprio di carboniana memoria.
Nei credits c’è scritto: “Domenico Sputo – Sax e Cori”. Eccolo, il commendator Domenico Sputo a suggellare la piccola creatura, ma senza la necessità di applicare il suo ingombrante nome: “Lucio Dalla”. “L’avvenire Carboni” è lucente, insomma. Il primo singolo uscito “Ci stiamo sbagliando ragazzi” è una “ramanzina” alla sua generazione, con le parole e i tempi giusti. Quelli di uno che gli anni li anticipa, i sentimenti li setaccia e li denuda. E, come i grandi della musica, li rende commestibili anche alle generazioni successive.
C’è un vantaggio per quelle generazioni.
Potersi godere oltre 35 anni di carriera, partendo però da una raccolta, forse la più bella tra le decine pubblicate in giro negli ultimi anni. Nel 2013 tredici artisti hanno voluto ricambiare, ognuno in una canzone, il bene che Luca Carboni ha regalato con i suoi dischi. Il risultato si chiama “Fisico e Politico”, un disco che rievoca pezzi di storia impreziositi da un suono ancor più fresco e dalle incursioni di amici illustri. Da Jovanotti, compagno di merende fin dai tempi del “Diario” negli anni 90, a Tiziano Ferro, che con “Persone Silenziose” ci è cresciuto, fino al maestro Franco Battiato, che canta quella “maglia del Bologna 7 giorni su 7”, in “Silvia lo sai”.
Probabilmente la musica italiana ha vissuto un avanti e un dopo Carboni.
I testi e le canzoni di Luca Carboni sono stati antesignani dei maledetti e benedetti “tormentoni pop”, ma anche della musica indie. La fu musica indie, poi diventata it-pop. Carboni è uno dei primi artisti mainstream italiani ad aver intercettato quei suoni e quegli artisti ancora poco conosciuti ai più, ma incredibilmente vicini al suo modo di raccontare la vita in questi 30 anni e passa di carriera. Hanno collaborato con lui da Dardust a Tommaso Paradiso, da Alessandro Raina a Calcutta. Con “Pop-up”, nel 2015, e “Sputnik”, nel 2018, ha riaperto un altro squarcio temporale e si è calato nella contemporaneità raccontando le cose sempre a suo modo. Avvalendosi di sfumature esterne che hanno completato i suoi scenari e gli hanno permesso di affermare a gran voce che è sempre lui, “Luca lo stesso”. Lo stesso che ha visto la sua città, Bologna, mutare negli anni e restare una regola, a cui rimanere fedeli e innamorati per sempre.
L’altro giorno, aspettando un autobus che mi portasse in centro nella calura estiva, cercavo di trovare una descrizione calzante di Luca Carboni e della sua musica. Ho unito ciò che più desideravo in quel momento e la sensazione che ho quando ascolto le decine di pezzi indimenticabili, realizzati in questi anni: Carboni è come un frigorifero completamente pieno di bottiglie da due litri di acqua naturale fresca. Un cantante capace di accompagnare delle generazioni e riuscire sempre a fotografare le emozioni, fino a renderle universali. Ed è sul palco che quest’essenza viene fuori. Quando quel ragazzotto molto timido, col capello non più ribelle ma brillantinato e lo sguardo non più corrucciato ma coperto dagli immancabili occhiali da sole, prende in mano il microfono e cela quell’introversione, tipica delle persone silenziose, ma con una gran voglia di divertirsi.
Ma il silenzio fa rumore
E gli occhi hanno un amplificatore
Quegli occhi ormai da sempre
Abituati ad ascoltare