Viaggio nella poetica di Franco Califano
Franco Califano, romano sin da bambino, nacque nel 1938 e visse 74 anni. Per chi non lo conoscesse, fu cantautore, poeta e anche attore in qualche pellicola cinematografica.
Franco, soprannominato dai sui fan “Il Califfo”, crebbe principalmente in collegio. Sognava di diventare un pompiere, ma poi fu talmente affascinato dalla notte che cominciò a scrivere. Prima poesie, poi, siccome non gli rendevano danaro, si buttò sulle canzoni. Diventò grande in Un tempo piccolo. Era un viveur, amava le donne, tutte: le cosiddette “veline”, ma anche le meno belle poiché voleva trovarci le qualità nascoste, caratteriali e naturalmente sessuali. «Per una donna non servono regali, né complimenti, ad una donna devi sfondare il cuore coi sentimenti. Ad una donna non devi mai mentire, non è un bambino». Califano non era un malato del sesso, ma gli piaceva particolarmente – come a tutti d’altronde – e lo studiava in tutte le sue infinite sfaccettature, a tal punto da diventare un guru del settore, autore anche di libri sul tema.
Il Maestro – altro soprannome che gli fu dato – era “un frutto di periferia”, crebbe con gente che entrava ed usciva dal carcere, e alla fine ci finì anche lui, per poco tempo, accusato di spaccio e associazione a delinquere. Fu assolto, vittima di un errore giudiziario. Faceva però uso di droga ed era amico del criminale Francis Turatello, il cui figlio è il bambino che tiene in braccio nella copertina del disco “Tutto il resto è noia”.
La sua produzione musicale si compone di 32 album e milioni di copie vendute.
Prima di entrare nel vivo della discografia – principalmente i dischi degli anni Settanta e Ottanta, suo periodo più ricco e interessante – è bene precisare che egli fu anche paroliere. Per riconoscerne il valore, basta citare i seguenti brani: Minuetto per Mia Martini, La musica è finita per Ornella Vanoni, E la chiamano estate con Bruno Martino, Un grande amore e niente più per Peppino Di Capri.
Ma chi era davvero Er Califfo? «Un uomo che non dà spazio alle illusioni»[1]: «io vivo dove la realtà è pazzia»[2], ma soprattutto «vivo la vita così alla giornata con quello che dà, sono un artista e allora mi basta la mia libertà»[3]. Anche però un uomo che ha cantato La solitudine e la malinconia in modo autentico: «Un vecchio pescatore nun po’ più portà la barca a remi fin laggiù, se guarda er mare suo co’ nostalgia, poi spegne la lampara e così sia»[4].
E ancora: «Soli si è ai bordi del mondo, soli si è su strade di nebbia»[5], magari quelle volte in cui si viene lasciati o traditi, «e per questo ora resto da solo»[6]. Quindi l’amore diventa spesso un modo per non restare soli: «Me ‘nnamoro de te se no che vita è, lo faccio ‘n po’ pe’ rabbia, un po’ pe’ nun sta solo come sta solo ‘n omo nella nebbia perché nun po’ parla’ manco cor cielo»[7].
Roma sullo sfondo
È naturalmente Roma la città che fa da sfondo a molte canzoni di Califano, “il grande museo da attraversare in punta di piedi”, come la definì Alberto Sordi, “la città che assolve” di Ennio Flaiano, insomma quella che Gianfranco Ferrè disse d’avere “l’eleganza dell’umanità e della storia”. Ed ecco Mezza Roma, Roma e Settembre, ma soprattutto Roma nuda, canzone che mette in luce l’amicizia – «’N amico nun ce sta che me pò consolà stasera, m’attacco a ‘sta città che s’è addormita già da n’ora, cammino su di lei, su strade uguali a pelle scura»[8] – tema trattato anche nella canzone L’urtimo amico va via: «Er vecchio gruppo ‘ndo stà, me li so’ persi così, se sò scordati de me, tanto amici e poi… tiè!»[9].
Sì, perché alla fine «ogni cosa se ne và, finisce er ciclo de n’età»[10]. Ed è spesso negli animali domestici, specialmente nel cane, che l’uomo trova il suo giusto compagno: «Io vado dove il cane mio vorrà, inseguo il sole dietro a lui, prendiamo i frutti che la terra dà e far programmi non è da noi»[11]. Ma può essere anche un “problema”, come Califano ben racconta in Pier Carlino; si tratta delle vicissitudini che comportano avere un animale, ma che in realtà possono celare problemi legati alla vita, alla convivenza.
Forse la canzone più emblematica che evidenzia la pietà e l’importanza affettiva che molte persone nutrono verso i cani è Io non piango
«Io nun piango pe’ quarcuno che more, nun l’ho fatto manco pe ‘n genitore che morenno m’ha ‘nsegnato a pensare, non lo faccio per un altro che more. Un piango quanno scoppia ‘na guera, er coraggio de’ l’eroi stesi in tera io lo premio co’ du’ fiori de serra, ma nun piango quanno scoppia ‘na guera. Io piango quanno casco nello sguardo de’ ‘n cane vagabondo perché ce somijamo in modo assurdo, semo due soli a r monno e me perdo in quegli occhi senza nome che cercano padrone, in quella faccia de malinconia che chiede compagnia»[12].
Il brano è un monologo ed è diventato celebre insieme ad altri come La seconda, Pasquale l’infermiere, La porta aperta e Nun me portà a casa. Quest’ultimo – è un vero e proprio capolavoro – racconta la vita di un uomo che implora il suo amico di non riaccompagnarlo a casa, perché è un inetto, un fallito, senza lavoro, ignorante, avvinazzato, incapace di insegnare qualcosa ai figli, campato dalla moglie.
Resta invece singolare – oggi sarebbe assolutamente bandito e tacciato di sessismo – il monologo Avventura con un travestito
«In faccia era più liscio della cera, che barba s’era fatto quella sera, era una bomba infatti me so detto “nun so più io si nun la porto a letto”, tutto sembrava fuorché un travestito. […] A questa sì che jela dò ‘na botta, questa nun è la solita mignotta. […] Co’ ‘n bacio ‘n bocca j’ho mozzato er fiato, solo ar ricordo quanto ho vomitato. […] Ma quando je ‘nfilai la mano sotto cò la violenza che c’ha solo ‘n matto, restai de ghiaccio, in mezzo a quelle cosce la mano mia acchiappò dù cose mosce, mai viste così grosse ‘n vita mia, dù palle come li mortacci sua»[13]. In effetti questa storia potrebbe essere anche autobiografica siccome Califano, nonostante abbia detto d’aver scopato con più di 1500 donne (la prima quando aveva tredici anni), ha anche confessato d’aver avuto un’esperienza con un travestito.
Er Califfo era un latin lover. Nelle sue copertine era spesso vestito elegante, tutto di bianco, o sportivo con magliette aperte con i peli del petto in evidenza, con il sigaro o la sigaretta in bocca ed il sorriso a trecentosessanta denti bianchi, in pose da modello, su macchine o moto da corsa.
Ma ‘ste donne come le trattava? Testimonianze di sue compagne hanno raccontato d’esser state benissimo, d’aver avuto dolcezza, attenzioni e poesia, altre invece d’esser state scaricate dopo qualche ore di baci e sesso. Quindi un po’ come racconta nelle canzoni. Troviamo l’illusione: «Con le mie mani di pietra e la tua bocca di seta, pensavo avremmo raggiunto questo cielo assassino e avremmo preso i suoi frutti e morsicato quel sogno che ora dorme lontano in fondo al vino. In questa notte di pioggia fatta di schegge di luce, non senti il calore che morde come una bestia feroce? E la memoria ubriaca riveste a festa la stanza coi vecchi fiori di campo e di affamata speranza»[14]
Naturalmente troviamo anche l’incertezza: «Riflessioni, decisioni, pensieri. Difficile scoprirsi dentro, sentirsi veri, giudicarsi, criticarsi, capirsi»[15], con una punta di positività: «Io non so come andrà a finire, so certo quello che farò: non ho amato mai, ma con te lo sento che accadrà»[16]. E domani? Domani che ne so.
Un amore, però, è fatto anche di menzogne:
«È vero, io son volubile, a mille donne ho raccontato frottole»[17], di incomprensioni: «Boh! Con te non c’ho capito niente. Boh! A volte sembro un deficiente. […] Boh! È proprio vero con le donne. Boh! Tu credi di far bene e invece no»[18], e di noia, quella che Oscar Wilde definì “unica cosa orribile al mondo, peccato imperdonabile”.
Quindi cos’è l’amore? «Un gioco che bisogna sapè fà»[19], «un fatto alla fine soltanto di dare e avere, e le parole, per bene che vada, ti servono a complicare finché c’è entusiasmo si ha voglia di raccontare, ma le parole non hanno purtroppo la forza di durare»[20]. In realtà, l’amore è anche e soprattutto gridare “sei bella, sei mia già con la fantasia”, fatto di Attimi «in cui un’alba chiara ti sembra ricca di poesia»[21] o magari come Un ricamo nel cuore, quando bisogna «vestire d’eterno le ore»[22]. Guai però a farlo d’estate, al mare, perché «ogni amore nato al mare è una storia da due lire»[23]
E allora? Tac!
«Amare è diventare scemi, ubriacarsi di emozioni. È stringere due mani che danno forti vibrazioni. Amare è prendere d’assedio ciò che altre volte da fastidio. Amare è quando fa impazzire sentire addosso il suo odore. È vivere e sentire un fuoco acceso dentro te. Amare è darle un bacio in bocca mentre lei mangia un’albicocca. Amare è dire adesso voglio il suo respiro del risveglio. È quando il suo sapore ti piace più di ogni altro bere. Amare è stare ad aspettare il tuo telefono squillare. Amare è quando ti fa male la lontananza sua da te»[24].
E ‘sti cazzi della differenza d’età: «Tanti anni ti separano da me, lo ammetto. Ma io ritorno giovane per te, prometto. C’è una generazione fra di noi, diversi i miei pensieri, i sogni tuoi. Ma camminiamo stretti per la mano, verso quello che verrà. […] Cos’è l’età quando si ama?»[25].
Califano ha ben raccontato anche il triste avvenimento della droga, dell’eroina
«Cercava la luna in metropolitana, un ago feroce che non ha mai pena colpiva una vena. […] Un bisogno d’affetto che nessuno le dava, uno spazio da niente in cui lei soffocava, rotolando di noia non vedrà più la luna. Ha voluto così».
Amava la notte, una volta disse: «Sono sempre andato a letto cinque minuti più tardi degli altri, per avere cinque minuti in più da raccontare». Ma davvero è tutto oro ciò che luccica? Forse dietro scopate e alcool, c’era davvero un uomo profondo e malinconico, il poeta che scrisse anche versi come questi: «Quattro barche stanche che hanno preso sonno sono l’evidenza dell’autunno. Sembra tutta pioggia l’acqua dentro il porto, cade il sole in un tramonto morto»[26].
Franco Califano è stato un cantautore che, grazie al suo timbro e alle musiche che variavano da arrangiamenti carichi e spinti al lento arpeggio di una chitarra classica, è riuscito ad emozionare milioni di persone. Ha cavalcato generazioni, con la spensieratezza che da molti gli fu criticata, ma che lo elevò su un piedistallo indiscusso, anche grazie alla celebre frase “Tutto il resto è noia”. La sua arte è immortale ed è in dubbio che un giorno non sia proprio lui a tornare a cantarla, dal momento che sulla sua lapide è incisa la frase “Non escludo il ritorno”.
[1] Chi sono io, “...tuo Califano”, Ricordi, 1980 [2] Un uomo da buttare via, “...tuo Califano”, Ricordi, 1980 [3] La mia libertà, “La mia libertà”, Ricordi, 1981 [4] È la malinconia, “Secondo me l'amore”, CGD, 1975 [5] Quando comincia la notte, “Io per amarti”, Lupus, 1983 [6] Da solo, “Impronte digitali”, Lupus, 1984 [7] Me 'nnamoro de te, “Tutto il resto è noia”, Ricordi, 1977 [8] Roma nuda, “Tutto il resto è noia”, Ricordi, 1977 [9] L'urtimo amico va via, “'N bastardo venuto dar sud”, CGD, 1972 [10] Ibidem [11] Dove il cane mio vorrà, “L'evidenza dell'autunno”, CGD, 1973 [12] Io non piango, “Tac!”, Ricordi, 1977 [13] Avventura con un travestito, “Ti perdo...”, Ricordi, 1979 [14] Appunti sull'anima, “Impronte digitali”, Lupus, 1984 [15] Riflessioni, “Impronte digitali”, Lupus, 1984 [16] Io per amarti, “Io per amarti”, Lupus, 1983 [17] Sarai mia, “Buio e luna piena”, Lupus, 1982 [18] Boh!, “La mia libertà”, Ricordi, 1981 [19] Quattro regine e quattro re, “'N bastardo venuto dar sud”, CGD, 1972 [20] Ah, l'amore, “Io per amarti”, Lupus, 1983 [21] Attimi, “...Ma cambierà, Ricordi”, 1985 [22] Amore dolce uomo, “Ti perdo...”, Ricordi, 1979 [23] Una favola d'estate, “Tutto il resto è noia”, Ricordi, 1977 [24] Amare è, “Impronte digitali”, Lupus, 1984 [25] Cos'è l'età, “La mia libertà”, Ricordi, 1981 [26] L'evidenza dell'autunno, “L'evidenza dell'autunno”, 1973
Francesco Saverio Mongelli
Classe 1997. Autore di canzoni, poesie, saggi, articoli e racconti. Musicista e scacchista, appassionato anche di antimafia, attualità, giornalismo, arte e cinema.