Proud to be Italian: il “colpo notturno” dei Be Forest
“Dove sono finite le band italiane che cantano in inglese?”. L’articolo di Rockit, uscito agli inizi del mese di aprile, rileva la difficoltà per la stragrande maggioranza dei gruppi in questione ad emergere nella scena musicale nostrana, ormai letteralmente invasa dalla nuova ondata pop.
Cosmo, uno a caso, sarebbe forse riuscito a raggiungere un simile livello di popolarità se avesse continuato la sua attività artistica all’interno dei Drink To Me? Probabilmente no.
E sia chiaro, non perché nel progetto solista di Marco Bianchi sia riscontrabile una qualche superiorità oggettiva rispetto al lavoro dell’ex trio made in Ivrea, piuttosto, com’è fin troppo evidente, gli interessi dell’industria discografica e delle piattaforme streaming si muovono in sincronia con l’andamento del(l’ormai) mainstream, attenzione, rigorosamente italiano; aggettivo che sta ad indicarne la provenienza e, soprattutto, la lingua veicolare. Di fatto, comunque, solo una piccola, piccolissima, minoranza di questa new generation in costante ascesa è in grado di fare i grandi numeri sia in casa che all’estero.
Sembra, in ogni caso, che la partita della sperimentazione musicale e testuale si giochi in gran parte altrove, ossia in quello spazio non troppo esteso, sopravvissuto alla morsa stringente di trap e itpop e che qualche talento, che magari continua da anni ad esibirsi in giro per il mondo, qui in Italia fatichi ancora a sfondare quanto dovrebbe. A volte cantare in inglese è quasi una presa di posizione, dettata dalla volontà di distaccarsi da un certo modello dominante o, in generale, di distinguersi, a volte si tratta invece di un’autentica, e perché no, sentita, scelta stilistica del tipo “certe cose posso e riesco a dirle solo così”, a volte si tratta di entrambe le cose.
Quest’ultimo mi sembra essere il caso dei Be Forest.
I pesaresi, sono tra i gruppi che calcano i palchi stranieri, per lo più americani, grazie al supporto di Italian Music Export, ufficio creato da SIAE per promuovere e sostenere la diffusione della musica italiana all’estero. Eh sì, perché alla fine, sempre di musica italiana stiamo parlando.
Se sbirciamo la pagina Spotify della band, notiamo (con piacere) che sotto la voce “Dove ascoltano le persone” compaiono ben tre città su cinque non-italiane: in ordine, Città del Messico, Los Angeles e Londra. Ma quello che descrivono i Be Forest nel loro ultimo, terzo, album Knocturne (2019), pubblicato come i precedenti due dal collettivo Wwnbb (We Were Never Being Boring), è un non-spazio: non ci sono punti di riferimento fisici, geografici, è più una questione di stato d’animo, di un’oscurità o di un abisso notturno interiore in cui bisogna lasciarsi sprofondare per potervi galleggiare. Anche le tracce funzionano come un coerente flusso continuo, dove, a un ascolto un po’ distratto, potrebbe sfuggire quando finisce un brano e quando invece ne comincia un altro. È tutto così, senza confini, sterminato. Spazio e tempo esteriori non esistono più.
I Be Forest sono bravi a creare ex novo un certo tipo di atmosfera e poi a trasmetterla: il sentirsi completamente smarriti nella terra di mezzo, non più bambini, non ancora del tutto adulti. Dilatazione dell’attimo che anticipa il dover prendere una decisione; decisione che magari orbita attorno alla direzione da imprimere alla nostra vita.
Ascolta qui Knocturne, nuovo album dei Be Forest
La copertina del disco è un sipario, aperto nel centro, che funge quasi da collegamento tra due mondi, tra due Fasi.
Oltre le mani, bianchissime, delle mani senza un corpo, solo l’oscurità in cui lasciarsi andare. Luce e ombra, l’etereo e il materiale, il gioco delle dicotomie coesistenti in Gemini:
Sun and moon /
Split in two /
Left and right /
Day joins night /
Sleep has dreams to forgive /
Side by side /
Which is me? Which is you? /
L’esigenza di Knocturne è quella di rispondere all’interrogativo di chi siamo noi.
È l’errare del soggetto infranto che, frantumatesi le precedenti certezze su cui si basava l’unitarietà del proprio io, è portato a rimettere tutto in questione e a ricercare da zero un qualcosa in cui riconoscersi: I’m waiting myself/Hidden somewhere in my heart (Bengala).
Riuscire nell’impresa non è garantito. Anzi, forse non è nemmeno auspicabile, pena l’interruzione dell’infinito fluttuare.