C’era una volta Lucio Corsi, con il suo cappello blu dalle lunghe piume nere e con le sue zeppe argentate ai piedi. E poi c’erano le note della sua chitarra e della sua armonica spinte lontano lontano, fino a diffondersi tra le fronde degli alberi trascinate da un vento tiepido e gentile.
C’era una volta lui con i suoi capelli lunghi, lui insieme alla sua “banda” – è questo l’appellativo dato ai suoi musicisti – e c’era il palco del Tutto Molto Bello in un pomeriggio di settembre.
E poi, proprio di fronte a quel palco, seduta in prima fila, c’ero anch’io.
Quello di Lucio Corsi era un concerto che attendevo da mesi.
Potete, dunque, immaginare quanto alte fossero le mie aspettative al riguardo. Sapevo dal principio che lui fosse un eccellente musicista, un comunicatore abile e divertente, un personaggio memorabile per la sua singolare capacità dialettica e di espressione artistica. Quel che non sapevo né che avrei potuto prevedere a priori è ciò che avrei provato assistendo ad una sua esibizione dal vivo, perché un concerto di Lucio Corsi somiglia più ad una favola.
La voce dell’artista guida lo spettatore tra i meandri di un mondo simile al nostro, solo più magico. Il repertorio di questo singolare cantautore nasce dall’attenzione primordiale che lui stesso dedica ad un dettaglio della nostra realtà e si sviluppa in veri e propri racconti in cui la penna di Lucio celebra protagonisti decisamente anticonvenzionali: a volte è il vento triestino che da freno diventa spinta, altre volte sono gli animali che si fanno promotori del movimento punk tra i boschi della Maremma. Sono molteplici, forse infiniti, i personaggi dell’universo musicale Corsiano.
Dopo l’esecuzione dei primi due-tre brani della sua scaletta, ho abbandonato il telefono tra gli oscuri, minuscoli spazi della mia borsa, e mentre il cielo si tingeva di rosso e Lucio passava da uno strumento musicale all’altro, io mi sentivo come sospesa, sempre più in alto, lontana dal mio posto a sedere. Probabilmente, il mio telefono non si è mai sentito tanto solo.
Alla fine del concerto, ho avuto il piacere di conoscere ed intervistare Lucio. Avevamo a disposizione sedie e tavoli, ma abbiamo preferito sederci per terra. E mentre lui sorseggiava la sua birra, io ripensavo alle favole della nostra infanzia.
Pollicino – Essere piccoli in un mondo così grande. Che tipo di artista emergente eri?
Lo sono ancora, perché la mia la vedo più come un’”emergenza”. Come una cosa che risale sull’acqua. Hai l’emergenza di dire una cosa. Una svolta c’è stata quando ho capito che volevo suonare, il momento in cui ho detto: “Wow! Questa cosa mi piace, ma cos’è?”. Mi ricordo che misi un disco live dei Rolling Stones, “Flashpoint”. Avrò avuto dieci o undici anni. Partì “Start Me Up”, la prima canzone, e io rimasi tipo: cos’è? Esiste anche questa cosa qui? Si può fare questa cosa? In quel momento ho deciso di comprare una chitarra e di iniziare da lì. Quella è stata la lampadina.
Biancaneve – Lo specchio delle brame e l’ossessione per il bello. Riusciresti a spiegare cos’è per te la bellezza?
Non esiste una sola cosa bella. Una persona, un quadro, un panorama, una giornata: tutto può rappresentare la bellezza. Anche le cose brutte a volte possono. È una cosa talmente soggettiva che ognuno ha la sua idea al riguardo. Ognuno se la trova in ciò che vuole, la bellezza. E dovremmo sempre riuscire a trovare il lato bello, positivo o utile nelle cose.
Pinocchio – Il potere delle bugie. Quanto è legittimo che la musica si appropri del falso e che giochi con la verità?
La musica, così come qualsiasi forma di espressione, secondo me non deve raccontare la realtà, ma deve in qualche modo trasformarla. Migliorarla, peggiorarla: va benissimo comunque. È fondamentale che non venga trascritta in arte la realtà così com’è, sennò non è arte. Non c’è un ragionamento dietro, non c’è arte in quello, nel descrivere il mondo così com’è. Questo va preso e trasformato tramite la fantasia, che è una lente di ingrandimento o rimpicciolimento, lo strumento principale della musica, della scrittura, dell’arte figurativa: è come una chiave inglese per un meccanico, la fantasia. Con quella puoi rendere il mondo più bello o più brutto – come vuoi te – purché tu lo faccia. Bisogna dire qualcosa di più rispetto alla realtà. È difficile, ma è anche la cosa più divertente che ci sia.
Le favole esistono e vengono raccontate a scopo educativo: le ascoltiamo, e impariamo qualcosa. C’è un insegnamento più prezioso degli altri che hai appreso vivendo il mondo della musica da così vicino?
Più che altro dalla mia famiglia. Anche in “Cosa faremo da grandi?” c’è quel concetto di vita lì: non smaniare per esser ricordati a tutti i costi, ed essere felici anche nel distruggere ciò che di piccolo o grande tu abbia fatto o creato. Distruggerlo, ripartire e trovare la felicità. La spinta è proprio in quello, nella (ri)partenza, non nel traguardo che è tanto agognato. Alla fine, si vive benissimo anche senza raggiungerli, determinati traguardi.
Poi io e Lucio ci siamo messi in posa per scattare una foto, lui ha finito la sua birra e ci siamo salutati, dandoci appuntamento al prossimo concerto.
Ah, quasi dimenticavo: la sua favola preferita è “Pierino e il Lupo”.
Annalisa Senatore
Annalisa Senatore all’anagrafe, ma sul web e nel cuore lei è annamatita. Nata e cresciuta a Siracusa, ha una laurea in psicologia, una in neuroscienze, un master in comunicazione digitale eeeee Macarena! E' una libera professionista e lavora nel mondo della comunicazione e della promozione musicale. La sua missione - dice - è combattere la banalità delle parole vuote e delle canzoni tutte uguali! Social media manager e Press officer della Red&Blue Music Relations, Project manager di The Web Engine. Ma anche sniffatrice seriale di libri, sosia ufficiale di Amy Winehouse e orgogliosissima Serpeverde.