La vera icona del Festival di Sanremo è lui. Lo immaginiamo tutti scolpito da tempo immemore davanti all’orchestra dell’Ariston, alla pari di Washington, Jackson, Roosevelt e Lincoln sul monte Rushmore. È un uomo capace di entrare nell’immaginario non soltanto di chiunque segua il Festival, ma di chiunque ne abbia mai sentito parlare, anche solo di sfuggita. Possiede una fisionomia ben distinguibile, con il pizzetto che è folto come una barba. E che, se fosse veramente una barba, lo renderebbe ancora più simile a Giuseppe Verdi, di cui già porta il nome di battesimo.
Avete indovinato di chi sto parlando?
Esatto, di Beppe (o Peppe) Vessicchio: l’intramontabile, l’inimitabile.
Si sa, i direttori d’orchestra di solito non sono i veri protagonisti di Sanremo: un po’ perché oscurati dalla fama maggiore degli artisti che accompagnano, un po’ perché il loro ruolo è forse proprio quello di essere sempre presenti ma mai sotto i riflettori.
Poche le eccezioni: Beatrice Venezi, che alla scorsa edizione del Festival era una delle ospiti scelte da Amadeus; Lucio Dalla, che nel 2012 diresse Pierdavide Carone apparendo pubblicamente per l’ultima volta nella sua straordinaria carriera; e poi lui, Beppe Vessicchio, accolto, ogni volta che appare sul podio, da applausi di un calore profondissimo, talvolta inibito solamente dalla solennità della sua presenza.
Una presenza costante e quasi famigliare, immediatamente riconoscibile e rassicurante. Solitamente possiamo parlare in questi termini di una persona che ci è intimamente vicina, sia essa un amico o un semplice conoscente di cui però sappiamo la storia, il vissuto, anche solo per sentito dire.
Ma, tolto Sanremo a Vessicchio, conosciamo veramente qualcosa di lui?
Questa domanda rischia di lasciarci spaesati, ma è proprio ciò di cui vorremmo parlare nell’articolo che state leggendo. Si tratta di un fenomeno vecchio quanto il mondo. O meglio, di un fenomeno vecchio quanto i media che ormai determinano l’ordine dei mille mondi dentro i quali viviamo: la nascita di un’icona pop. L’icona pop è quel personaggio che, nella cultura popolare, è riuscito a diventare un simbolo e un punto di riferimento per il vasto pubblico, attraverso un processo mediatico che coinvolge il pubblico stesso, i suoi umori altalenanti e le sue capacità interpretative. Un processo che rischia di inscatolare la vera identità del personaggio coinvolto, riponendola dentro un cassetto e costruendole intorno un alter ego del tutto – o parzialmente – diverso. Va da sé, allora, che una parte della sua personalità – spesso e volentieri anche artistica – viene oscurata da ciò che il pubblico stesso vuole (o è abituato a) vedere.
Esempio concreto: prima di diventare il direttore d’orchestra che tutti conosciamo, Beppe Vessicchio – nato il 17 marzo del 1956 a Napoli – era un comico. Sì, avete capito bene. Nel 1975 entrò a far parte del gruppo comico Trettré, anzi lo inventò proprio di sana pianta insieme agli altri primi due membri: Edoardo Romano e Mirko Settaro. Galvanizzato dalla folgorante passione giovanile per la recitazione e il teatro, Vessicchio si dedicò con grande ardore alla comicità. E potete immaginare il mio stupore quando ho scovato sul web il frame di una “commedia sexy all’italiana” (Giggi il bullo, 1982) con Vessicchio, autista di un carro funebre, nel novero dei personaggi.
La parallela passione per la musica cominciò in modo altrettanto stravagante – o meglio, non convenzionale.
Vessicchio dichiara di essere arrivato ad amare il mondo delle sette note grazie alla bossa nova di Antônio Carlos Jobim, uno dei suoi inventori, i cui dischi circolavano in casa grazie al fratello. Quando la musica prese il sopravvento sul cinema, Vessicchio lasciò i Trettré che propria allora, all’inizio degli anni Ottanta, iniziarono una strabiliante carriera in programmi come Drive In, con Gino Cogliandro a sostituire l’appena uscito Beppe.
Risate e bossa nova: due elementi che parrebbero del tutto estranei al Beppe Vessicchio che conosciamo, all’icona che ci persuadiamo di conoscere senza farlo davvero. Ingrediente quasi basilare per costruire un’icona pop è poi il successo e occorre dire che il successo, per Vessicchio, tardò un po’ ad arrivare. Un percorso costellato di tentativi ed errori, determinato poi dall’incontro con Gino Paoli nel 1983, per cui curò gli arrangiamenti di Averti addosso, Una lunga storia d’amore e Ti lascio una canzone. Per tutti i favolosi eighties, Vessicchio lavorò da quel momento dietro le quinte di grandi musicisti – Zucchero, Mannoia, Vanoni, Bocelli, Ron.
Instancabile, costruì la sua leggenda.
E la sua leggenda, a partire dal 1990, cominciò ad inghiottirlo. Per inghiottire un uomo nella sua icona, oltre al successo, c’è bisogno della ritualità. Il rituale e mai passivo ripresentarsi di un evento: di una persona dentro la cornice di quell’evento. Vessicchio inizia la sua carriera al Festival proprio in quell’anno, ricevendo poi nel ’94, nel ’97 e nel ’98 il premio riservato al miglior arrangiatore. Nel 2000 riceve lo stesso premio, reso più prestigioso dalla figura di Luciano Pavarotti come presidente della giuria che lo assegna.
Il rituale ripresentarsi di Beppe Vessicchio nella cornice del Festival ha dunque indubbiamente contribuito a renderlo famigliare e rassicurante, creando l’aspettativa di una logica prosecuzione di quella sua presenza. Contribuendo poi, parallelamente, a portare scompiglio ogniqualvolta la sua presenza in quella cornice non veniva invece confermata.
Successo, ritualità, aspettativa: ecco i tre ingredienti che creano l’effigie di un personaggio, il suo essere icona.
Questo aspetto può talvolta rivelarsi deleterio. Il lato oscuro di diventare un simbolo consiste di fatto nel negare pubblicamente – in modo talvolta inconsapevole – di essere anche altro da quel simbolo. Vi è una sorta di distruzione del sé interiore, subito sostituito dal sé esteriore. Un turbinio di identità, una scissione fra ciò che è e ciò che appare: due mondi che, a lungo andare, sembrano non coincidere proprio più. Tutte le icone, prima o poi, si stufano di esserlo. E per tornare profondamente a se stesse si rifugiano nell’imprevisto: quel luogo dove nessuno immaginerebbe mai di trovarle.
Beppe Vessicchio si rifugiò nel 2018 in un orto, più o meno immaginario. Proprio in quell’anno, infatti, pubblicò per Rizzoli il saggio La musica fa crescere i pomodori, divenuto in breve tempo un bestseller. Un Vessicchio inedito, lontano dalla sua immagine pubblica così ben consolidata, ci si parò improvvisamente davanti. I più ridevano, altri ne rimanevano sorpresi, altri ancora delusi. Discostatosi da un mondo che sentiva sempre più lontano, – “stressante, competitivo, basato su dati effimeri” – Beppe tolse così i panni del maestro Vessicchio. E si riscoprì in una veste nuova: quella di agricoltore, ricercatore e divulgatore scientifico-musicale.
Ed è proprio la parola “musicale” a non abbandonarlo mai. Perché in fondo è la musica ciò che più visceralmente appartiene a Vessicchio.
Essa è lo specchio dentro il quale l’icona si riconosceva insieme all’uomo, prima di fagocitarlo. Tolta l’icona, resta dunque la musica: sia essa la bossa nova del Beppe adolescente o i motivetti con i quali musicava i primi sketch cabarettistici.
Se Vessicchio torna all’ovile – quel palco dell’Ariston di certo tanto amato – è colpa e merito solamente di quella: la musica. Ed è curioso come nella ritualità ci sia uno scarto, qualcosa di insospettabile e desueto. Prima di Sanremo, c’è l’avventura di un tour nei teatri, durante il quale accompagna Le Vibrazioni nell’arrangiamento in chiave classica dei loro brani più rock. Con lui, un’orchestra giovanile: un sogno per Vessicchio, fondarla e dirigerla, che si realizza esattamente in questo frangente. Proprio Le Vibrazioni – quelle giuste, del cuore e dell’anima – lo riportano lì, a Sanremo, a dirigere Dov’è (nel 2020) e Tantissimo (il brano in gara quest’anno, nonostante ad oggi il maestro risulti ancora latitante a causa di una convalescenza post-covid piuttosto difficile da portare a termine).
Ma essere icone è davvero così negativo come ci viene raccontato?
Di certo ha i suoi pro e i suoi contro: e, fra i pro finora non detti, c’è quello di ispirare le persone, avvicinarle, divulgando ciò che si ama. Più che una responsabilità, questo è un gran privilegio, cui il maestro Beppe Vessicchio mai si è sottratto. Sta poi al pubblico muoversi in quel sano limbo in grado di modulare ed equilibrare l’iconoclastia e la venerazione. Perché Beppe Vessicchio – parole sue – non è altro che “un uomo ordinario che si occupa di musica”. E, alla pari di qualsiasi uomo ordinario, sa essere straordinariamente se stesso. Forse è proprio questo quello che ci attira in lui e che ci fa applaudire con forza il bisogno che ne abbiamo.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.