C’era una volta, per la prima volta, nel lontano 1951, il Festival di Sanremo. Un festival dove tre interpreti si dividevano una ventina di brani. Un festival in cui si aspettava la canzone vincitrice, e non il volto del vincitore, tanto che il premio consisteva nell’inserimento del brano trionfatore nel repertorio dell’orchestra RAI. Un premio, insomma, per soli autori ed editori, e non certo per cantanti e cantautori.
Luigi Tenco si suicida
Tutto a Sanremo scorreva tranquillo e lineare, nel fulgore della canzone italiana classica di intrattenimento puro – qualcosa come La Casetta in Canadà – . Poi, nell’edizione del 1967, Luigi Tenco si suicida, a seguito dell’eliminazione della sua Ciao amore, ciao. Egli aveva preso parte alla competizione “controvoglia” come dichiarò l’amico e concittadino Fabrizio de André, che come lui condivideva la necessità cantautoriale di dover raccontare qualcosa in parole in musica, di essere ascoltato, a costo di sfidare i limiti del pensare comune. A costo, anche, di non essere compresi e dover incassare il colpo. Ecco, Luigi Tenco è stato il primo martire dei cantautori, che dalla sua morte percepiranno la loro arte in antitesi a quella tipica del Festival della Canzone Italiana.
Nasce il Club Tenco
Così, nel 1984, sempre a Sanremo, nasce il Club Tenco, che ancora oggi assegna annualmente le targhe Tenco (miglior canzone, miglior album, miglior interprete, miglior opera prima, miglior album in dialetto). Questa comprensibile e storica separazione dei ranghi nella musica italiana, che con il passare degli anni ha abbandonato le sue origini rancorose per diventare semplicemente un costume, è diventata soprattutto rappresentativa di spessori musicali diversi. Basta confrontare i vincitori degli ultimi vent’anni del Festival con quelli della targa Tenco per il miglior album. Da una parte troviamo i Jalisse, Albano e i Pooh, dall’altra Ivano Fossati, Giorgio Gaber e Paolo Conte.
Una fusione nucleare
Tuttavia, sembra proprio che la scissione quest’anno stia per trasformarsi quanto mai in una fusione nucleare, in effetti ad opera di uno dei più famosi cantautori degli anni ’70. Claudio Baglioni, per il secondo anno direttore artistico del festival, ha infatti sfoggiato una lista di concorrenti “big” che sfonda il più alto tetto di emancipazione dallo standard musicale classico di Sanremo. Non una totale sorpresa, se si guarda anche alla partecipazione de Lo Stato Sociale dell’anno scorso.
Ma Baglioni – che qui dimostra di essere non solo uno che lavora sul campo, ma anche uno che sa dove punta la freccia del panorama musicale italiano – per il 2019 si è spinto oltre, perché in questa edizione ci saranno non solo gli Ex Otago e Achille Lauro, non solo i Negrita e Ghemon, nemmeno soltanto gli Zen Circus. Ma anche Francesco Motta, vincitore della targa Tenco per il miglior album del 2018. Prima di lui a Sanremo non molti: Daniele Silvestri – anche lui sul palco in questa edizione – Samuele Bersani, Niccolò Fabi e Carmen Consoli.
Motta, legittimazione popolare o commercializzaizione?
Di sicuro il primato personale e assoluto di Motta è quello di cantautore di nuova generazione a guadagnare un risultato così alto sul fronte della qualità e della popolarità, rappresentato rispettivamente dal premio Tenco e dal Festival. Potremmo leggerla come una legittimazione popolare di quel genere che fino a qualche anno fa era underground? Si, potremmo. Potremmo alzare accuse di commercializzazione? Non credo sia il caso.
Nel suo ultimo disco Motta racconta la vita, semplice e complessa com’è, dentro e fuori. Quella desiderata, quella vissuta, quella persa. Una vita che è Vivere o Morire. Che parla di me, di te, di lui. Tra un’estetica del suono che disegna veri e propri stati d’animo, le parole e la voce inconfondibile – che dal vivo non delude – le canzoni in questo disco, più che nel primo La fine dei vent’anni, hanno la capacità reale di sussurrare nell’orecchio di chi ascolta, raccontandogli di qualcosa che è suo e contemporaneamente di tutti.
Sono amplessi musicali perfettamente orchestrati per rappresentare la realtà in cui siamo dentro, e ti catturano senza lasciarti scappare. Sono le parole messe bene in fila da un bravo cantautore, che tra qualche giorno sarà chiamato ad essere sé stesso su un banco di prova che se da un lato lo vede come storicamente alieno, dall’altro lo accoglie come luminosa novità che rappresenta una generazione.
Della canzone che Motta porterà all’Ariston, Dov’è l’Italia, sappiamo solo che ha tutti i requisiti sia per impressionare che per annoiare. Infatti – come ha dichiarato lui stesso in un’intervista recente – tratta il tema del viaggio, con riferimenti non troppo forzati al tema dei migranti e del nostro paese. Non resta che aspettare il banco di prova stasera.
Foto in copertina di Laura Sbarbori
Maria Giulia Zeller
Rifletto molto, parlo troppo, e mi piace scrivere. Amo la musica, l'arte, la creatività, soprattutto quando riesco a farne un collante sociale. Credo nel potere della cultura e nella bellezza delle persone. Mi piace trovare e inventare opportunità, lavorando con nuove persone che possano insegnarmi qualcosa.
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