Il Festival di Sanremo e le donne: 74 anni di disuguaglianze
“Voglio dedicare la mia vittoria a tutte le donne che hanno partecipato al festival”. Sono state queste le prime parole pronunciate da Marco Mengoni esattamente un anno fa, dopo aver trionfato a Sanremo circondato da uomini. Per intravedere da lontano la prima donna, infatti, occorreva scorrere la classifica fino al sesto posto, massima posizione raggiunta dall’acclamato ritorno in gara di Giorgia.
“È semplice, – aveva aggiunto Mengoni in conferenza stampa – le donne avevano canzoni incredibili. Tra loro c’erano anche figure quasi mitologiche della musica italiana e ci sono rimasto male che nessuna fosse nella cinquina. Dobbiamo andare avanti e cambiare molte cose in questo Paese: sarebbe stato bello averne avuta almeno una sul podio”.
Certo, se la compagine femminile, pur al netto di canzoni bellissime, non raggiunge in numero nemmeno la metà dei colleghi maschi, le probabilità di salire addirittura fino ai primi tre gradini del podio sono chiaramente inferiori. Ancora una volta infatti, 365 giorni dopo le parole di Marco Mengoni, le donne a Sanremo sono in netta minoranza: 1/3 dei concorrenti. Un rapporto facile da ricavare, dato che gli uomini – fra solisti, duetti e band – sono 30, mentre a rappresentare “l’altra metà del cielo” restano 10 guerriere, compresa Angela, la “brunetta dei Ricchi e Poveri”.
Il “Teorema”: questione di cifre e di musica
“Prendi una donna, trattala male” cantava Ferradini (non a Sanremo) nel 1981. E di fatto, se esaminiamo l’ultimo ventennio, notiamo come, dal 2004, il Leone d’oro di Sanremo non abbia soltanto bistrattato le donne. Non le ha proprio minimamente considerate. Escludendo il 2008, anno in cui trionfò Lola Ponce in coppia con Giò Di Tonno, mai nessuna donna è arrivata a vincere il festival fino al 2012 (Emma, con Non è l’inferno). Pausa 2013, poi nuova vittoria femminile nel 2014 (Arisa, con Controvento) ma soltanto per tornare, infine, all’odierno imperio maschile.
Tirando le somme, in 74 edizioni di Sanremo, hanno vinto in totale solamente 28 donne. E se parliamo della conduzione, i dati diventano ancora più drammatici. Le conduttrici nella storia del festival sono infatti state soltanto quattro: Loretta Goggi nel 1986, Raffaella Carrà nel 2001, Simona Ventura nel 2004 e Antonella Clerici nel 2010.
Insomma, se gli anni Sessanta e Settanta sono stati il periodo della seconda ondata femminista, con tanto di riforme in favore delle donne, e gli anni Ottanta e Novanta quelli in cui i cambiamenti si sono consolidati nella vita quotidiana, il nuovo millennio che stiamo vivendo è caratterizzato da intere annualità durante le quali, come dopo ogni rivoluzione, ci si chiede: “stiamo davvero meglio, ora?”
Il Festival di Sanremo, di fronte a questa domanda, è un’utile cartina tornasole per potervi parzialmente rispondere. Si tratta di un evento mediatico e culturale, ma anche del riflesso di una società, dei suoi vizi e delle sue virtù. Soprattutto, dei suoi ascolti. Perché la musica, da sempre, parla a noi e di noi. E lo fa nella maniera più immediata possibile, dunque più autentica.
“Grazie dei fior”, ma anche no
Nel 1951, al primo festival della canzone italiana, a vincere fu una delle 28 donne nominate poc’anzi: Nilla Pizzi. Di più: grazie alla regola per cui uno stesso cantante poteva portare in gara più di un brano, l’anno seguente la Pizzi monopolizzò addirittura il podio, classificandosi rispettivamente prima, seconda e terza (record, ça va sans dire, tutt’ora imbattuto). La canzone di quel primo Sanremo, però, Grazie dei fior è significativa dello status femminile dell’epoca. Forse il ritornello riusciamo a ricordarlo:
“Grazie dei fior / Fra tutti gli altri li ho riconosciuti / Mi han fatto male, eppure li ho graditi / Son rose rosse e parlano d’amor”. È tuttavia l’inciso successivo che fa riflettere: “E grazie ancor / Che in questo giorno tu m’hai ricordato / Ma se l’amore nostro s’è perduto / Perché vuoi tormentare il nostro cuor?”.
Non si tratta dunque di una canzone d’amore, la cui purezza è evidenziata dai fiori ricevuti in regalo. Non solo, perlomeno. Perché è anche il racconto di un uomo che non vuole darsi per vinto. E che “tormenta il cuore” dell’amata con il ricordo di un sentimento perduto. Un uomo mal disposto a rassegnarsi, come quelli che riempiono le nostre cronache odierne, purtroppo non più armati soltanto di un mazzo di rose.
Donne, pioggia e lacrime
A ribaltare fortunatamente il paradigma, dimostrando di sapersi rassegnare a soffrire un po’ piuttosto che a prevaricare, ci pensa nel 1959 il signore della canzone italiana, Domenico Modugno. Stravince infatti quel festival con Piove (ciao ciao bambina), il dolce e rispettoso lamento di un uomo che ama ma che sa anche, non ricambiato, lasciar andare la propria donna.
“Ciao, bambina! Ti voglio bene da morire! Ciao! Ciao! / Ciao, ciao, bambina, non ti voltare / Non posso dirti rimani ancor / Vorrei trovare parole nuove / Ma piove, piove sul nostro amor”.
Piove anche nel 1964, in uno dei testi forse più velatamente machisti nella storia della kermesse.
Mentre Gigliola Cinquetti vinceva quel festival, con l’indimenticabile Non ho l’età (non ho l’età per fare che cosa poi? E chissà se un uomo parimenti sedicenne avrebbe mai potuto cantare lo stesso brano), Bobby Solo si aggiudicava la seconda posizione e un successo trasversale con Una lacrima sul viso. Sintesi della trama: un ragazzo si accorge dell’amore di una ragazza solamente dopo averla fatta piangere. Non contento, conclude la sua disanima così: “Quella lacrima sul viso / È un miracolo d’amore / Che si avvera in questo istante per me”.
Non stupisce come il testo sia a firma di Mogol, la cui penna spesso misogina abbiamo imparato a conoscere nelle canzoni, comunque bellissime, di Lucio Battisti (Dieci ragazze, Il leone e la gallina, svariate altre). Ma è lo stesso Mogol a tentare di rifarsi, l’anno successivo, con un altro brano per Bobby Solo, Se piangi, se ridi. Sono sempre le lacrime a farla da padrone, questa volta però condivise. “Se piangi, se ridi / Io sono con te / Perché sono parte di te”. Va bene, Mogol, ti perdoniamo (forse). E anche Sanremo lo fece, visto che questa canzone, nel 1965, stravinse.
Donna è madre?
Nel 1954, mentre la prima pillola anticoncezionale veniva sperimentata negli Stati Uniti, Giorgio Consolini vinceva Sanremo con il brano Tutte le mamme. “È tanto bello quel volto di donna / che veglia un bimbo e riposo non ha. / Sembra l’immagine d’una madonna / sembra l’immagine della bontà”. Non mi si fraintenda: è una canzone meravigliosa e strappalacrime. A mia nonna era appena morto un figlio in culla, quella fu la colonna sonora del suo lutto e della sua rinascita, ed oggi, la memoria minata dalla demenza senile, è l’unica canzone di cui ancora ricorda testo e note.
Si tratta però, allo stesso tempo, di un brano fortemente influenzato da un cliché: quello dell’equazione donna=madre, al diavolo tutto il resto. Un paradigma portato avanti per secoli in modalità che potremmo tradurre così: la sterilità era una colpa tanto grave quanto una gravidanza indesiderata.
Ecco allora che, nel 1986, a sparigliare le carte ci pensa lei, Loredana Bertè, esibendosi al festival un finto pancione ad esplodere dal suo vestito. Il messaggio era chiaro: “sono una donna, posso essere madre come posso non esserlo, ma nessuno mi toglierà la forza che sprigiono”. Re, la canzone che portava in gara allora, arrivò soltanto nona.
Quello che le donne (non) dicono e quello che gli uomini (non) cantano
Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli (Sanremo 1966), Un’emozione da poco di Anna Oxa (Sanremo 1978) e Gli uomini non cambiano di Mia Martini (Sanremo 1991) hanno in comune due cose. La narrazione chiara e puntuale, priva di fronzoli o metafore, di un punto di vista femminile sulle relazioni amorose e il secondo posto nelle rispettive edizioni del festival. “Ognuno ha il diritto di vivere come può” cantava la Caselli. Per questo è normale, aggiungeva la Oxa, “che un’emozione da poco mi faccia stare male”. Ma la voce disperata di Mimì ci ricorda che esistono ancora uomini disposti a cambiare, a dispetto del titolo, e “sono quelli innamorati come te”.
E di uomini innamorati che hanno cantato le donne a Sanremo ce ne sono tanti. Ma soprattutto moltissimi le hanno scritte, in una maniera quasi celestiale, come Enrico Ruggeri (Quello che le donne non dicono interpretata da Fiorella Mannoia a Sanremo 1987) e Vasco Rossi (Finalmente io cantata da Irene Grandi a Sanremo 2020).
Ma la canzone più imprescindibile, scritta (e stavolta anche interpretata) da un uomo, resta Donne di Zucchero (Sanremo 1985). “Negli occhi hanno dei consigli / E tanta voglia di avventure / E se hanno fatto molti sbagli / Sono piene di paure”. Il brano diventò presto un successo, ma Sanremo, ancora una volta, le sue Donne non le trattò molto bene, fermandole al penultimo posto.
Pazza Mariposa
E nel 2024? A livello di partecipazione generale, abbiamo già visto quanto poco nutrito, dal punto di vista femminile, resti il cast di quest’anno. Ma a livello di contenuto spiccano senza dubbio due testi di notevole caratura, così come le interpreti che li hanno portati sul palco dell’Ariston. Pazza di Loredana Bertè è un inno rock all’essere donne, come in quel lontano 1986: fuori dagli schemi, senza per questo dover tradire se stesse. Ed è un attimo leggervi anche l’amarezza di fronte a chi, dentro quegli schemi, le donne vuole buttarcele a forza: “Prima ti dicono basta sei pazza e poi / poi ti fanno santa”.
A proporre la realtà del ruolo primario storicamente assunto nella società dalle donne, contro ogni forma di stereotipo, ci ha pensato invece Fiorella Mannoia con la sua Mariposa.
“Mi chiamano con tutti i nomi / Tutti quelli che mi hanno dato / E nel profondo sono libera, orgogliosa e canto”.
“Si tratta di un brano di orgoglio femminile, – ha spiegato la Mannoia in un’intervista a Tv Sorrisi e Canzoni – Io lo vedo come un manifesto, poi non so se lo diventerà. Siamo in un momento in cui le donne stanno finalmente prendendo coscienza della propria emancipazione e il brano è una carrellata nella Storia. Nel bene e nel male, noi siamo tutto questo”.
Anche l’articolo che avete appena letto ha voluto essere una carrellata nella Storia del festival di Sanremo, al femminile. E chissà se assisteremo, stasera, ad un suo inaspettato ribaltamento, con 3 delle 10 cantanti in gara ad occupare i gradini di quel podio. Come diceva Mengoni lo scorso anno, ne basterebbe almeno una. Ma forse, e più verosimilmente, non ne basterebbero nemmeno cento.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.