Quando Sanremo canta l’ambiente: dall’arca di Noè al gigante d’acciaio
“Al Festival di Sanremo non si canta l’ambiente”. Così titolava Repubblica lo scorso anno, indicando nel testo della canzone vincitrice – Brividi di Mahmood e Blanco – l’unico, flebile (e a mio avviso forzato) richiamo ad una mobilità sostenibile.
“Ho sognato di volare con te su una bici di diamante”
Eppure, negli anni, di canzoni che in riviera ligure hanno toccato temi legati a stretto giro con quei famosi fiori – simbolo della natura, prima che della stessa kermesse – ne possiamo trovare parecchie.
“Mettete dei fiori nelle vostre canzoni!” verrebbe da dire, parafrasando un celebre slogan pacifista che in tempi di guerra, altro tema scottante, non sembra così fuori luogo.
Ecco allora che la prima canzone vincitrice del festival, quando ancora veniva trasmesso alla radio, è Grazie dei fiori di Nilla Pizzi. Un battesimo per quello che sarà il leitmotiv di ogni edizione da lì in avanti. Ovvero, la presenza massiccia di quei mazzi profumati, portati in dono a tutte le artiste (donne). Ma poi, negli ultimi anni, anche agli uomini, con tanto di misteriosi equivoci e strane gag. E non perché la musica sia patriarcale – anche se forse pure questo tema andrebbe approfondito. Piuttosto perché, se secondo la scienza bastano ventun giorni per radicare un comportamento in abitudine, mezzo secolo non è forse sufficiente ad eradicarlo del tutto.
Le uniche cose sradicate restano allora proprio quei fiori, che grazie alla loro presenza silenziosa sul palco cercano di richiamare con il colore della propria pelle l’attenzione di tutti. Esattamente come i girasoli di Van Gogh macchiati di zuppa durante la prima sconcertante protesta dei Just Stop Oil. “Cos’è più importante, l’arte o la vita?” gridavano i manifestanti (e forse quei fiori stessi). L’arte o l’ambiente? La musica o l’aria che respiriamo?
Per quelli che, come me, vivono con lo stereo sempre acceso, Spotify a portata di mano e le sinapsi perennemente sintonizzate sulle onde lunghe dei propri brani preferiti, fra musica e aria non c’è in fondo una grande differenza. E proprio per questo vi è bisogno, oggi più che mai, di una musica che parli di ambiente, difenda l’ambiente e ami l’ambiente.
Ma, checché ne dica Repubblica, ogni tanto a Sanremo di ambiente si è anche parlato.
Cominciando dal 1966, anno della prima legislazione ambientale nazionale, siglata appunto il 13 luglio. Cinque mesi prima, al Festival della canzone italiana, Adriano Celentano cantava Il ragazzo della via Gluck, destinato a diventare un vero e proprio inno ambientalista.
“Là dove c’era l’erba ora c’è una città, e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà?”
Per portare a Sanremo questo brano, Celentano rifiutò di interpretare Nessuno mi può giudicare, canzone che, andata a Caterina Caselli, si aggiudicò la seconda posizione e una gloria imperitura. Il ragazzo della via Gluck chiuse invece la propria esperienza sanremese nelle retrovie, restando tuttavia una delle canzoni più ricordate dell’intero repertorio del molleggiato.
Il brano, decisamente autobiografico, è ambientato in via Cristoforo Gluck – quartiere Greco nella periferia di Milano, zona che nel dopoguerra aveva conosciuto una forte urbanizzazione – ossia la strada dove il cantante era nato e dov’era vissuto con la famiglia, al civico 14. Dal testo emerge il nostalgico rimpianto di un mondo perduto, quello dell’infanzia. Un idillio mangiato dall’età adulta, così come gli spazi naturali finirono per essere inghiottiti dall’asfalto.
L’anno successivo, il 1967, iniziò con ancora addosso le cicatrici di una recente tragedia ambientale: l’alluvione a Firenze, con conseguente straripamento dell’Arno. La cicatrice che invece dovette portarsi addosso Sanremo fu quella scavata dal suicidio di Luigi Tenco, in gara con Ciao amore, ciao.
“E poi mille strade grigie come il fumo, in un mondo di luci sentirsi nessuno. Saltare cent’anni in un giorno solo, dai carri dei campi agli aerei nel cielo”
Il testo di questa canzone ebbe una genesi piuttosto lunga.
Si narra che Tenco scartò una decina di versioni altrettanto buone prima di arrivare a quella definitiva. In parte ballata d’amore e in parte critica della società moderna, il brano narra di un uomo che, stanco della vita di campagna e del lavoro nei campi – fatto di sopravvivenza e legato alla ciclicità della natura –, è deciso a partire per la città, con la prospettiva di nuove occasioni. Per fare questo, tuttavia, deve lasciare la persona amata, che rimane nei luoghi d’origine. Nel “nuovo mondo” il protagonista si ritrova però spaesato e privo di riferimenti, tanto da desiderare con nostalgia il ritorno ad un passato che ormai non esiste più.
Almeno altre due canzoni nella storia sanremese descrivono un analogo attaccamento alla natura, intesa come vita rupestre. Sono Cara terra mia di Albano e Romina Power (1989) e Voglio andare a vivere in campagna di Toto Cotugno (1995).
Il primo brano è stato bollato in varie occasioni come pezzo dal contenuto piuttosto trash, con versi quali “Nei tuoi giardini i fiori sono già siringhe, vetri e oscenità” a lasciare più basiti che sconvolti. Ma ciò non impedì allo storico duo della musica italiana di classificarsi al terzo posto, con una canzone comunque importante nel definire il ruolo e le responsabilità degli uomini nella cosiddetta disfatta terrestre.
“Il mare sta morendo di dolore, i fiumi di vergogna e impurità. Quel buco nell’ozono fa rumore, che cos’altro poi succederà?”
Toto Cotugno si presenta invece in gara con una canzone che appare, già dal titolo, piuttosto nostalgica e malinconica.
Un uomo, per amore della donna amata, si trasferisce in città dove, nel generale grigiore, rimpiange la campagna. Un tema forse banale o eccessivamente semplicistico, ma che riecheggia un certo clima di quegli anni Novanta. La rinascita di dottrine new age legate alla terra, l’inizio della cosiddetta era biologica – con l’avvicinamento delle persone ad un’alimentazione biodinamica, in linea con l’intenzione di assumere davvero su di sé le sorti del pianeta – ed infine la presa di coscienza da parte delle istituzioni internazionali di quanto il problema climatico ed ambientale fosse più urgente di quanto sembrasse.
Una presa di coscienza talmente trasversale che le canzoni di Sanremo, ad un certo punto, sembrano quasi non servire più.
Ed infatti, nei primi anni duemila, i brani “ambientalmente” impegnati si diradano. Un certo interesse verso il tema riemerge in pezzi che in realtà contengono dentro i loro testi di tutto un po’. Sto parlando di Abbi cura di me (Simone Cristicchi, 2019) e Eden (Rancore, 2020).
Il primo brano, definito dallo stesso Cristicchi “una preghiera d’amore universale”, narra la bellezza dell’umano evidenziandone le fragilità. Inevitabile dunque toccare en passant anche la natura e l’ambiente.
La seconda canzone ripercorre, in un’analoga universalità, la storia dell’uomo dall’origine fino ai giorni nostri. E lo fa in un’atmosfera talmente carica da diventare a tratti angosciante, così come angoscianti sembrano i versi finali del pezzo.
“C’è una regola sola nel regno umano: non guardare mai giù se precipitiamo”
Ma se proprio si tratta di dover scegliere un brano, fra i tanti nella storia di Sanremo, capace di cantare nelle sue strofe la tutela dell’ambiente tout court, la gara diventa un ballottaggio fra due testi estremamente ricchi ed altrettanto estremamente agli antipodi cronologici del festival.
Il gigante d’acciaio, di Gabriella Martinelli e Lila, fu presentato a Sanremo nel 2020.
“Ho scritto Il gigante d’acciaio mentre ero sull’autobus che da Taranto mi avrebbe riportato a Roma, la città in cui vivo da un paio di anni”. – aveva raccontato proprio Gabriella in un’intervista – “L’autobus parte dal porto mercantile, che è a due passi dal quartiere Tamburi, il cosiddetto quartiere rosso perché vicinissimo proprio a quel gigante che sprigiona polveri di quel colore capaci di depositarsi dappertutto”. Il gigante in questione è dunque l’Ilva, acciaieria simbolo di un’Italia che dalla fine degli anni Sessanta ha costruito il proprio progresso sul ricatto fra lavoro e salute.
“Non possiamo scegliere se vivere o lavorare, se scappare o morire”
Ed è proprio dalla fine degli anni Sessanta che arriva un altro grido, allarmato ma speranzoso.
È lui: il mitico Sergio Endrigo, ricordato ogni anno nell’assegnare al festival di Sanremo il premio per la miglior interpretazione. E proprio lui, nel 1970, interpretò un brano destinato ad entrare nella storia per la disomogeneità fra le strofe tormentose e il ritornello sognante: L’arca di Noè.
Voli di gabbiani telecomandati e conchiglie morte sulle spiagge. Un toro che perde cherosene dal cuore e nuovi cavalli di latta che distruggono cavalieri impotenti ad ogni curva stradale. Sono questi versi, quasi futuristici, a riflettere il timore del viaggio appena intrapreso dall’umanità verso un progresso illimitato ma limitante. Quella di Endrigo era forse una voce fuori dal coro, che evidenziava quanto fosse faticoso essere uomini in un mondo che sembrava tentare in tutti i modi di allontanarsi dall’umano.
“Partirà, la nave partirà, dove arriverà, questo non si sa. Sarà come l’arca di Noè: il cane, il gatto, io e te”
Ecco allora che al gigante d’acciaio fa da contraltare proprio l’arca di Noè, sulla quale possono salvarsi solamente coloro che a quell’umano e a tutto ciò che davvero gli appartiene – salute, coscienza, sogno e amore – credono ancora.
P.S. Quattro anni dopo, Sergio Endrigo rammenterà al mondo che “per fare tutto ci vuole un fiore”. Al di là dei bouquet sanremesi, siamo ancora capaci di ricordarcelo?
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.