Ѐ sempre un buon momento per parlare di salute mentale
In questo articolo non parlerò di musica, anzi, forse questo articolo parlerà di musica, ma parlerà soprattutto di salute mentale e di musica. Ok, giochi di parole e scherzi a parte, provo a spiegarmi meglio.
Qualche tempo fa mi sono imbattuta in un post di thasup che annunciava la necessità di prendersi una pausa da un letto d’ospedale a causa di una serie di problemi legati alla gestione dell’ansia.
È stato un messaggio che in qualche modo mi ha fatto specie. Un ragazzo con il suo talento, la sua popolarità, il carisma che esprime nelle sue canzoni, travolto dall’ansia.
Si può finire in un ospedale per l’ansia? È questa la prima e forse più stupida domanda che mi sono fatta.
Poi, qualche giorno fa, ho ascoltato la canzone e le dichiarazioni di Sangiovanni a Sanremo che nel suo brano “Finiscimi” parla della sua difficoltà a gestire le emozioni. Un file rouge che in effetti ricorre anche in parecchie canzoni del suo album precedente “CADERE VOLARE”. In particolare mi colpì una canzone che ascolto ancora adesso. Riporto qui un pezzo che mi ha in qualche modo testata, scossa:
“Se ti metti lo smalto sei dichiarato nazionale /
Se stai con un altro uomo ti minacciano di morte /
O se picchi uno straniero sei comunque un italiano /
E se tua moglie non ti vuole non può manco denunciarti /
Non si può dire più un cazzo /
Non si può fare più un cazzo /
Va a finire che m’ammazzo /
Almeno questo posso farlo”
Ho fatto un volo pindarico, al suicidio così come lo intendevano gli scapigliati, un gesto estremo di protesta a partire dalla rinuncia alla propria vitalità, contro un mondo troppo crudele, rude, deturpato.
Lungi da me voler estremizzare, ho ascoltato con attenzione le sue parole al termine della sua esibizione nell’ultima puntata del Festival di Sanremo e in conferenza stampa. E mentre lui si sente solo, io mi sono sentita compresa, capita.
Poi ho pensato a quando da piccola, forse poco prima dell’adolescenza, ho cominciato ad avere i primi attacchi di panico.
Una morsa ti stringe il petto, ti impedisce di respirare, ti toglie il fiato. In realtà ripensandoci adesso, mentre scrivo, il primo attacco di panico di cui ho memoria risale addirittura alla scuola dell’infanzia.
Stavo giocando nel cortile della scuola insieme ad altri bambini e ad alcuni genitori, tra i quali c’era anche mia madre. Io e altri miei amichetti stavamo sull’altalena ma siccome soffrivo di vertigini, la regola quando c’ero io era ben precisa: si poteva solo oscillare lentamente, ecco perché spesso si sollevava un coro di protesta a cui non badavo tanto, perché volevo solo sentirmi al sicuro.
Come tutti i bambini di quell’età. Ma quel giorno il papà di una mia compagna di scuola non diete ascolto alle raccomandazioni di mia madre afferrò quell’altalena e cominciò ad agitarla con forza. Mi ricordo che urlai fortissimo e poi il buio. Pochi istanti dopo che ero in braccio a mia madre, terrorizzata e tremante come una foglia al vento, mentre le altre mamme ci guardavano come se fossimo alieni, incluso quel papà che provò a scusarsi. Mentre una fu perfino capace di chiederle: Ma tu lo sapevi?
Probabilmente vi starete chiedendo cosa c’entra tutto questo con la musica.
Beh, per me tutto. La musica è stata per me una grande terapia, finché più di vent’anni dopo in terapia non ci sono andata davvero. Gli attacchi di panico sono più sporadici ma l’ansia non se n’è mai andata.
Quel peso sullo stomaco, quel groppo in gola, quel senso di agitazione, l’inadeguatezza che si impossessa dei tuoi pensieri: quando devi parlare in pubblico, quando cammini per strada e la gente ti fissa etichettandoti come diverso. La musica è stata un antidoto. In primis perché mi permetteva di estraniarmi dagli sguardi della gente, in secondo luogo perché trasformava la mia vita in un film tutto sommato interessante che tutt’al più si concludeva con una caduta. Ma tant’è.
L’importante è rialzarsi. O se non uccide fortifica, come dice Tiziano Ferro.
La musica è stata anche un grande talismano. Ne ho avuto la conferma nelle ultime settimane di dicembre, quando sono tornata a casa. In quella che ora è solo casa di mia madre perché ora vivo altrove ma che da adolescente volevo lasciare a tutti i costi, come mi cantava Battisti nelle orecchie: “avere nel cuore una voglia di amare, avere nella gola una voglia di gridare e chiudersi dentro, prigionieri di un mondo che ci lascia soltanto sognare, solo sognare…”
L’ho capito quando in preda all’insonnia misuravo i battiti cardiaci con lo smartwatch. E mi è venuta in mente la canzone di Vasco Brondi che recita “e misurarci i battiti cardiaci sui sismografi”.
Ero in preda all’ansia, il cuore in gola e ho fatto partire uno dei suoi ultimi dischi, una raccolta; alcuni brani erano nuovi, poi c’erano tutti gli altri, i riarrangiamenti, “le canzoni da spiaggia deturpata”.
È stato come tornare adolescente, in quella che era di nuovo la mia cameretta a casa mia. E l’ansia si è assopita per un paio d’ore. Poi è partita “Chitarra Nera”, era la prima volta che la ascoltavo, non la conoscevo. Eppure è già uscita da un po’. Me ne sono rammaricata. E più Vasco mi parlava e più dentro mi si apriva una voragine.
Ho pensato a Dalila che non c’è più.
A lei che era bellissima e che aveva 26 anni e che ci abbiamo provato un po’ tutti a guarirla. Tutti quelli che l’abbiamo amata. Ho pensato all’amica che sono stata a quello che avrei potuto essere, a tutte le cose che si è persa, a quello che avrebbe potuto essere lei, alle lunghe chiacchierate al telefono in cui parlavo per ore e cercavo di rassicurarla che ce l’avrebbe fatta, che ce l’avremmo fatta.
Certe volte restava in silenzio mentre io aspettavo una risposta e mentre il tempo passava mi assicuravo che fosse ancora lì, attaccata a quel telefono ad aspettare parole di conforto. Dalila se n’è andata e io l’ho lasciata andare. In un sogno l’ho abbracciata e lei mi ha detto che non si è pentita. L’ho perdonata perché questo mondo forse non è fatto per i buoni e lei aveva questo unico grande difetto: era troppo buona. Dalila se n’è andata come una lacrima nel vento.
Eppure, io la sento, la vedo mentre guardo la vetrina sulla quale si fermava sempre, e osservo i vestiti che le sarebbero potuti piacere, nei libri che abbiamo condiviso, nei suoi nomignoli, nelle canzoni di quell’estate che ci ha fatte avvicinare, tipo “Fino a farci scomparire” che le piaceva tanto “E ora lo vedi con il tempo, tutto sembra avere un senso, anche questo nostro ritornare a innamorarci in questo Altrove, fino a farsi scomparire, fino a farci scomparire”.
Ho scoperto in questi giorni così amari, che la musica è l’unica terapia, insieme alla terapia, quella medica, in grado di abbassare il volume dell’ansia. La mia ansia.
L’ho scoperto perché mentre facevo partire una playlist infinita che durava anche fino a mattina presto, mi concentravo sui testi e mettevo a tacere i pensieri ripetitivi e i meccanismi di autosabotaggio che mi divorano nel cuore della notte.
Ho sempre trovato eccessiva la frase “La musica ti salva la vita” per certi versi penso ancora lo sia. Tuttavia, è innegabile che in certi casi sappia infondermi calma stimolando la liberazione di neurotrasmettitori quali la dopamina, infondendo una sensazione di gioia e felicità che spazza via le nubi dell’ansia.
Oggi, lo ripeto, ho cominciato un percorso di psicoterapia per la gestione dell’ansia ed è strano che riesca ad ammetterlo per la prima volta pubblicamente dopo aver ascoltato una canzone di thasup, un ragazzo molto più giovane e coraggioso di me che è riuscito a fermarsi e a chiedere aiuto. E grazie alla consapevolezza di Sangio.
“Quindi prendi questo, prendi il resto/ Butta quello che t’ho regalato dal cuore/ Ho un CD con ogni tua canzone/ Le ho scritte mentre mi nascondevi chi sei/ Ora per me è impossibile prender posizione
Ed essere lucido, non credo che potrei.”
Però sono felice, forse per la prima volta in vita mia. O meglio, sono serena.
Anche se so che la strada da percorrere è tanta. Perché piano piano sto sciogliendo tutti i miei nodi e sto imparando a capirmi, a mettermi al primo posto.
Sono sempre stata restia a rivolgermi ad un professionista perché mi rifugiavo nell’erronea convinzione di poter risolvere da sola i miei problemi. In realtà la verità era un’altra: che mettere sul piatto le proprie fragilità è difficile, non tanto perché ci si trova di fronte ad un altro ma perché la sensazione è quella di togliersi un groviglio di cose attorcigliate dal petto, per guardarle con un occhio terso e dirsi: e ora con questa cosa enorme che ci faccio?
Beh, amici, ancora non lo so, però proverò a seguire il consiglio del mio amico Davide: Penso solo che voglio stare di nuovo bene.
E per quanto riguarda te, Sangio, ti aspettiamo, ma senza fretta. Prenditi il tuo tempo perché ognuno di noi, tutti noi dovremmo farlo. Prenderci del tempo, per essere nel tempo.