Cos’è il Value Gap e perchè è importante tornare a parlarne
Qualche settimana fa abbiamo ricevuto un articolo via mail. Alessio Mazzeo, artista della scena underground italiana, ci proponeva la pubblicazione di una sua riflessione relativa al Value Gap. Che cos’è e perché è molto importante parlarne proprio in questo momento ve lo spiega lui qui di seguito.
Democratizzazione. Ritengo sia un buon momento per levarsi qualche sassolino dalla scarpa. A giudicare dal leitmotiv che sta assumendo la bagarre pseudo-attivista in ambito musicale, appare evidente che il focus della disputa sia abbastanza fuori asse. Almeno se si osserva la questione dal punto di vista di chi la musica la crea e la produce, senza mangiarci semplicemente sopra. Voglio parlare di VALUE GAP.
Cos’è il Value gap, e perché ve ne parla un artista underground?
La risposta alla seconda domanda è semplice. Pensiero indipendente, privo di censura e libero dall’imperativo istituzionale, ovvero la tendenza a imitare il comportamento degli altri. La prima domanda, invece, merita un approfondimento, sia per gli addetti ai lavori più improvvisati, sia per gli altri, che giustamente hanno pensieri più importanti a cui rivolgere le loro attenzioni.
Il Value Gap è il nome che si dà alla sproporzione nella distribuzione dei dividendi, generati dagli ascolti in streaming, destinati ad artisti, label e produttori, in confronto agli importi – decisamente maggiori – trattenuti da piattaforme quali Spotify o YouTube.
Da quando Napster ha sostanzialmente ammazzato il mercato della vendita dei dischi, seguito a ruota da altre realtà peer-to-peer come WinMx o DC++, sentiamo ripetere spesso che la maggioranza dei profitti degli artisti deriva dai live. Dopo lo shock iniziale, causato dai drammatici cali delle vendite nei primi anni del Duemila e patito principalmente dalle Major, il “bradipismo imprenditoriale” ha avuto la meglio nel settore.
Cosa intendo con bradipismo imprenditoriale?
Conosciamo tutti le caratteristiche del bradipo, ma non tutti sanno che la sua pigrizia è anche causa della sua frettolosità nell’atto dell’accoppiamento. L’indolenza del bradipo è conseguenza della sua rinomata lentezza, ma anche causa della sua meno nota frettolosità. Prendendo spunto dal nostro buffo animale, allo stesso modo un’idea di business (o un settore intero) può vivere nell’ambivalenza tra lentezza nelle scelte e frettolosità nell’azione. Così vengono lanciati sul mercato progetti la cui durata è la medesima del frettoloso accoppiamento del bradipo. Portando l’usa-e-getta nei palazzetti dopo appena un disco si limitano al massimo i tempi e i costi di produzione, in favore di campagne promozionali massicce e fulminee. Mentre, al contempo, i macro modelli di business si spostano nei mari dei consumi con pigrizia e lentezza, come farebbe il nostro animale in una giornata assolata, lasciando più o meno intenzionalmente l’iniziativa a terzi.
Il bradipismo imprenditoriale disfunzionale dei discografici ha comportato l’incapacità di affrontare con tempismo i cambiamenti generazionali (lentezza nelle scelte). Hanno lasciato l’iniziativa a persone dai denti più affilati dei loro, capaci di rendersi indispensabili per il settore pur non producendo nulla di per sé, bensì sfruttando sapientemente il lavoro altrui attraverso l’erogazione di un servizio. Servizio che è rapidamente divenuto indispensabile per la fruizione della musica. Questo ha aumentato enormemente il potere contrattuale di queste società, esterne al settore e che con la musica in realtà non hanno nulla a che fare (basti pensare ad Apple o Amazon), al punto che, nella divisione delle revenue, frutto dagli ascolti on line, ai professionisti del settore ed agli artisti vengono lasciate le briciole.
Sapete quanto si guadagna da un play Spotify?
Ve lo dico io: 0,0043$, che al cambio attuale non sono neppure 0,0040 €. Sempre ammesso che si tratti di play generati da account premium, altrimenti le cose peggiorano. Ciò significa che se un mio brano ha 10.000 ascolti ho guadagnato circa 40€. Anzi, avrei. Perché una percentuale di questi soldi va al distributore e un’altra va alla label. Sperando poi di aver scritto testo e musica da solo, altrimenti la catena di frazionamento prosegue.
In sostanza, toccando i 10.000 ascolti un artista si porta a casa meno di 20 euro, a fronte di un investimento di almeno 1000 euro, soltanto per la realizzazione di una produzione commerciabile, e senza contare le spese per l’ufficio stampa, la promozione, il video, le grafiche, etc. Molti artisti minori poi, specialmente quelli sprovvisti di etichetta, purtroppo sono costretti a sostenere queste spese da soli. Quindi, per raggiungere il break even point, occorrerebbero almeno 500.000 play a traccia, in assenza di altre fonti di guadagno. Tutti i risultati inferiori sarebbero evidenziati in rosso.
State già riponendo le chitarre nel fodero, eh? Ora: se fino al febbraio 2020 i nostri bradipi in jeans e camicia potevano avvalersi del mezzo concerto per livellare i guadagni, spesso gonfiando a dismisura i numeri, sfruttando tutti i loro canali preferenziali e facendo diventare must stagionali veri e propri scarti di produzione, adesso che l’era dei live 1.0 sta tramontando, perché nessuno parla del Value Gap?
Probabilmente perché i Nostri ai piani alti, potendo collezionare dividendi da diversi progetti, alla fine della fiera portano a casa un unico utile più grande. Questo utile è generato dalla somma delle percentuali sugli utili dei “loro” artisti. Allo stesso modo gli artisti, sopra una certa soglia, possono incrementare considerevolmente le loro entrate grazie ai passaggi in radio ed alle varie concessioni e sincronizzazioni.
Ma com’è possibile che uno youtuber o un influencer senza arte né parte, e che non deve sostenere costi enormi per affacciarsi in rete, guadagni più di un professionista?
Noi artisti non siamo soliti fare la voce grossa, un po’ per mancanza di carisma, un po’ per ignoranza o per mezzi limitati. Ma i ragazzi al timone di comando, adesso che la cosa li riguarda da vicino, quando avranno l’intelligenza o le palle di rivolgersi al Parlamento europeo per far applicare una direttiva sul copyright più equa, in materia di distribuzione degli utili derivanti dagli streaming? Possibile che la leadership del settore sia così inetta da non riuscire ad andare oltre agli hashtag per risolvere i problemi? Se vogliamo costruire una casa, chi sta facendo il tetto, com’è possibile che non si preoccupi minimamente di chi è alle prese con le fondamenta?
Molti di voi magari non avranno afferrato l’importanza del discorso. Altri non saranno stati titolari di un’adeguata soglia dell’attenzione, ma (dato che molti di voi si professano comunisti) fate conto che sia un po’ come la teoria del valore esposta nel Capitale di Marx. Nella teoria marxista viene evidenziata la sproporzione di ricavo-valore tra chi costruisce la macchina e chi la macchina la vende.
Artisti indipendenti, io direi che è arrivato il momento di agire da adulti e di alzare la voce. Non in promozione di campagne di protesta sterili, promosse dagli addetti ai lavori più per mero interesse personale che per reale empatia, ma in difesa dei Nostri diritti, del Nostro lavoro e della Nostra proprietà intellettuale. Il Value Gap non è generato dall’infamia di un virus intangibile, ma dall’avidità sprezzante di società quotate in borsa.
No al Value Gap, #alziamolavoce.
Una riflessione di Alessio Mazzeo, Sativa Rose
La Redazione
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