È indubbio che ci sia una nuova italianità: fisiologica, endocrina, figlia del tempo in cui viviamo. E naturalmente figlia di un processo lungo che è partito dalla quotidianità, dalla vita delle persone. A cascata, tutti gli aspetti perimetrali della società subiscono (con accezione positiva) questo processo, un processo di contaminazione di mescolanza. Contaminazione che ha sempre pregi e mai aspetti negativi (tranne la pizza con l’ananas, quella è l’unica contaminazione che merita l’ergastolo).
È la possibilità di confrontarsi e di scontrarsi con mondi, culture e realtà diverse tra loro nell’obiettivo di fonderle e dare vita ad una risultante che già per il solo fatto di essere qualcosa di nuovo, è vincente. Per questo, fino a una decina di anni fa il disco di cui oggi vi scrivo lo avremmo trovato nella sezione dedicata alla black o world music di Blow up (che è una rivista di musica… sì, esistono anche riviste di musica e non solo l’Internazionale).
Si tratta di Monsters di Anna Bassy, Ep di esordio uscito da poco più di un mese. Siamo di fronte ad una fortissima matrice soul e r’n’b condita da interventi musicali vicini a sonorità che strizzano l’occhio alla global music, innesti sonori felakutiani, su cui la voce di Anna si fa sentire in modo educatamente prepotente.
Del soul, scusate il gioco di parole, resta l’anima, l’essenza. Vengono messi da parte quei manierismi che per troppi anni sono stati mostrati ed evidenziati, come fiore all’occhiello di quel tipo di vocalità.
In Monsters questo non accade, la voce è al centro perché deve esserlo e non perché vuole esserlo. Ha lo spazio che si merita all’interno di ogni canzone senza doversi arrampicare in cima alla montagna e guardare tutto dall’alto verso il basso. È in questa “misura”, in questa capacità di (d)osare che il risultato finale è superiore alla somma delle parti. Perché tutte le parti concorrono in ugual misura verso il medesimo obiettivo.
Musicalmente, come detto, si ritrovano sparsi, come oggetti di una caccia al tesoro; diversi e svariati elementi che si rifanno a quell’idea di world music a servizio della contemporaneità tanto cara a Peter Gabriel. Echi percussivi e sonori di una matrice lontana, ancestrale, primordiale, ma non per questo (anzi) meno elaborata perfettamente incastonati in una modernità musicale elegante e raffinata.
C’è, e negarlo ed ignorarlo sarebbe ipocrita, il limite della lingua
Anna Bassy canta in inglese e nonostante si sia di fronte alla generazione più preparata e abituata a questo aspetto (e non solo in ambito musicale), c’è un ostracismo perverso nel mercato discografico verso il non utilizzo della lingua di Dante (cosa che sarebbe comprensibile se il diritto di voto fosse concesso solo dopo una prova di consecutio temporum).
Non ho paura a spingermi così fuori dal parapetto dell’ottavo piano nell’affermare che in alcuni momenti ho avuto l’impressione di ascoltare Erykah Badu per questo approccio così intimista al canto; intimista ma al tempo stesso potente, conscio, maturo nonostante la giovanissima età e nonostante si sia di fronte ad un’opera prima.
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