Post Nebbia, “Canale Paesaggi” è un “Infinite Jest” della musica nostrana
David Foster Wallace scrisse Infinite Jest nel 1996, quanto i Post Nebbia ancora non esistevano. Ruotando intorno ad un “intrattenimento” usato come arma per ridurre in schiavitù e distruggere chiunque lo osservi con occhio indagatore, quella di Wallace è la prima grande opera di narrativa imperniata, con straordinario intuito profetico, su Internet. Ma prima ancora, Infinite Jest è un avvertimento generale contro l’insidiosa viralità dell’intrattenimento popolare. In anticipo su tutto e tutti, se si eccettuano i filosofi della tecnologia più delfici.
La condivisione di video, Netflix ventiquattr’ore su ventiquattro, il budino neurale alla fine di un’epica maratona di videogame. E ancora, la seduzione perversa di registrare e divorare i pensieri più normali e umani su Facebook e Instagram: Wallace sapeva (o intuiva) che tutto questo stava per arrivare e ciò gli dava i brividi. Gli stessi brividi che, di fronte all’univocità di un sistema volto a vincolarci totalmente ai propri svaghi, scorrono anche sulla pelle dei Post Nebbia e del loro nuovo disco, Canale Paesaggi – uscito il 23 ottobre scorso per Dischi Sotterranei/La Tempesta Dischi.
La title track dell’album, in pochissimi secondi, riesce a farci immergere nell’atmosfera giusta per ascoltare questo lavoro.
Lo svolgimento di tutto il disco sarà infatti costellato, di qui in poi, da dialoghi di programmi televisivi locali, audiocassette o estratti di video YouTube. Un escamotage davvero interessante, che dà all’ascoltatore la strana percezione di cambiare traccia come si cambia un canale. Avevamo intervistato i Post Nebbia il mese scorso, in occasione del Poplar Festival: proprio allora ci avevano anticipato qualcosa su queste incursioni mediatiche, che rendono il disco un concentrato di energie elettriche, un’opera realizzata con “colori ad olio e asfalto” (Canale Paesaggi).
Forse il tema cardine del disco stesso può essere tuttavia individuato nelle due parole che ne compongono il titolo. Ovvero nella strana dicotomia fra “fuori” e “dentro” che si può percepire leggendole. Canale rimanda subito a qualcosa di immateriale, al tubo catodico che rigurgita contenuti capaci di farci incollare ad uno schermo. I paesaggi sono invece quelle cose tremendamente materiali e concrete che ci aspettano oltre. Oltre il muro delle nostre case, oltre lo schermo di tutti i nostri dispositivi, oltre il vetro dal quale “guardo le persone che mi passano accanto” (Persone di vetro), oltre la bolla che “cammina con me, io vedo solo ciò che vede lei” (La mia bolla).
L’uomo comune narrato fra le note di “Canale Paesaggi” vive il senso imposto dal sistema.
Desidera, ma entro il recinto delle cose che gli sono proposte, tra le scelte già scelte da altri. In maniera quindi irresponsabile, nel senso letterale del termine. Lo sentiamo bene in tracce come Streaming: “non riesco a fare una scelta su cosa guardare, tutta questa varietà non mi fa pensare”. L’incapacità di creare scenari differenti, allora, ci rende consumatori passivi e del tutto simili gli uni agli altri: privati cioè delle nostre unicità. Ecco dunque che, caratterizzate da una “disperazione comune e totale” (Luminosità alta), “le persone si somigliano fra loro soltanto nelle cose peggiori” (Nuoto sincronizzato).
In una quotidianità schermata, le domande fondamentali non riguardano più le nostre relazioni, le nostre vite, le nostre passioni, i nostri sogni. Gli stati certi, le distrazioni garantite, ci impediscono di porci questo genere di quesiti. Il sistema ci vuole felici. O meglio, drogati di una serenità fittizia (perché ricca invece di inquietudine), incoscienti, distratti da noi stessi e dai nostri bisogni più autentici. Pazzi: folli di tv, pubblicità e social network.
E forse una “connessione” con le vite di altri pazzi non c’è proprio. “Nella profonda quiete della valle di Zoldo, incorniciata dalla bellezza delle Dolomiti, due secoli fa si svolse la vita di un matto” (Interlace): che cosa ci accomuna a quel matto? Il matto, nei tarocchi, è la carta di chi cerca una nuova vita, o qualcosa di più tra le fronde di quella che sta già vivendo: con un semplice sacco sulle spalle, parte da solo, verso l’ignoto. Siamo ancora capaci di questo? Siamo in grado di sottrarci al loop quotidiano cantato in Televendite di quadri o continueremo a fraintenderci senza capire cosa gli altri vogliono comunicarci, come in Vietnam?
Una cosa è certa: quello che vogliono comunicarci i Post Nebbia lo capiamo benissimo.
E musicalmente parlando, questo gruppo davvero talentuoso affronta tali argomenti alla sua solita, vincente, maniera: ritmi ipnotici, fulminei accenni di virate jazz, tastiere acide e bassi funk. Un pop psichedelico di rara eleganza compositiva, che strizza l’occhio ai Tame Impala affondando però le sue radici in quel territorio ibrido, 50% new wave e 50% art rock, che caratterizzava certa musica di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta.
La comunicazione, allora, è anche e soprattutto musica. Parole dette, cantate, ascoltate: suoni che escono dalle labbra e dagli strumenti concreti di persone altrettanto vive. Nel distopico ritratto di una realtà attualissima, resta dunque un messaggio conclusivo, identico a quello che Wallace, in Infinite Jest, già aveva intuito: comunicare è condividere, ma non solo virtualmente. Comunicare è parlare e ascoltare: qualsiasi altro surrogato non basta a colmare i nostri vuoti. Altrimenti, chiamate i Carabinieri di Vigonza.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.