Ho provato più e più volte a definire Carl Brave e la sua poetica attraverso una sua frase ad effetto. Ho sempre pensato che quella frase avrebbe dovuto essere cazzara ma profonda al tempo stesso. Che poi cazzaro viene dal greco, Katsàros, uomo libero. A Roma il termine ha poi preso un significato dispregiativo. Beh, mi piacerebbe riassumere tutte le sue bevute a Trastevere e le litigate con la tipa in una piccola manciata di parole. Vorrei che in quella frase ci fossero tutti i temi che è stato in grado di toccare.
Carl Brave mette gli episodi della vita nello stesso piano.
Essere beccato dalla ragazza con delle foto hard nel telefonino ha la stessa valenza di abbracciare ubriaco marcio un tuo amico in piena nottata; ciccare sulla lattina di una Coca Light è una visione paradisiaca quanto l’edera che si affaccia sulla via. È la Roma di oggi. È la Roma degli opposti, dei lavori in nero, dell’arte sublime e in declino. Ci vedo pure Sorrentino in Carl Brave. E se il Portogallo ha il sandwich più decadente al mondo -la Francesinha- noi abbiamo la città, tiè.
Ma la fatiscenza spesso trova nelle sue ceneri un aspetto nuovo della sua essenza stessa, generando un vortice di creatività che si catapulta nella mente di alcuni strani personaggi che diventano simpatici a tutti. Avevano Giorgio Gaber e Iannacci, i nostri padri. Due tizi in grado di raccontare una città attraverso suoni e parole. Noi abbiamo Carletto e Franco 126, dalla Milano da bere alla Roma di Raggi. Pochi cantautori entrano in simbiosi con una città fino a raccontarne le sue vene palpitanti. Ci viene offerta la loro Roma, non quella del bagno al fontanone dei loro padri. Ci raccontano visioni della nostra infanzia e delle nostre uscite.
Le nostre memorie funzionano proprio a mo’ di Polaroid.
Mai così bene è stata descritta una generazione in confusione. Con tutti gli input tecnologici esterni che abbiamo, tutti gli stimoli che riceviamo ogni giorno, non siamo in grado di avere una visione lineare del tempo passato e dei nostri ricordi, le nostre memorie diventano caotiche e slegate, proprio come le canzoni di Carletto: abbiamo già l’Alzheimer. Ed ecco che i ricordi diventano dejà vu, le serate si mescolano insieme. Gli innumerevoli stimoli esterni hanno cambiato la nostra memoria collettiva e il modo che abbiamo di cantarla, raccontarla e viverla. Siamo la generazione che non ha sofferto la fame, che vorrebbe mangiare fino a stare male e scrive un papiro di cazzate con l’emoticon. Siamo la generazione che non sa più che leggi seguire, né che autorità ascoltare. E così ce le scriviamo noi, le leggi, scolpite nei meandri di Spotify: le Camel blu alle sei non fanno male, è un dato di fatto, e io ci credo per davvero.
Siamo gli ultimi baluardi di una vita al bar, i 2000 non ci vanno quasi più.
Ma abbiamo comunque problemi a relazionarci, siamo in fin dei conti tutti timidi in un modo o nell’altro. Questo ci vedo nelle tre bire prese, e in tutte le noccioline mangiate all’appuntamento con una ragazza. Carl Brave è un cazzaro, ehm, un uomo libero, che mette sullo stesso piano temi dalla profondità differente: un meme riesce a raccontarti l’amore dantesco senza scrivere tutto il Paradiso. Non approfondiamo nulla, perché guardiamo solo i titoli del giornale, ma proviamo emozioni anche noi, siamo ancora capaci di raccontare le nostre linee della vita e di unirle. Roma non ho avuto modo di viverla, però ci faccio quattro passi quando Carletto comincia a cantarla, e ogni volta che ascolto Notti Brave ci trovo sempre una rima nuova che mi piace. Alcune volte fa apposta a mangiarsi le parole per farti riascoltare una canzone, o no?
Brave è un vero e proprio poeta.
Gioca con l’italiano come pochi under 30 in Italia. Da premio Campiello. In trent’anni anni siamo passati da quanto è profondo il mare al Tevere che pare l’oceano, e va bene così. Carlo non si vanta per niente delle sue doti da scrittore, con le rime che tira fuori potrebbe fare il bohémien o il radical chic, e invece lo vedi live con la bottiglia di Vodka in mano. Ma trova la rima tra Crai e AIDS, o genera il gioco di parole in cui vorrebbe vedere lei arrossire come il tappo di un Pinot, e pedalarla in un Risciò. Pedalare non è transitivo. Word mi segna errore al termine “pedalarla”, Brave gioca con l’italiano e il suo slang, è chiaro soprattutto a chi ha preso addosso a un palo guidando, sdeng. Produce nuove contaminazioni linguistiche, Treccani avvisata.
Lo vedo fare oggi solamente dai Coma_Cose e dai Pop x. Caccia la rima tra tettino e il “ninonino” dell’ambulanza, e la trasforma in hit estiva. La sigaretta che ora affoga in un tombino è una immagine lirica, ed è lo stesso tombino di Polaroid, tatuato SPQR. Il tombino tatuato ragazzi, figure retoriche che saltano da un album all’altro. Parole sparse e vita di strada. Brividi. Sarà che Polaroid mi fa venire in mente un bellissimo periodo della mia vita, ma questi due ragazzi hanno rinnovato la modalità di racconto della musica italiana. Hanno smesso di tediare col pop tradizionale, attraverso un mix interessante di indie, rap, pop e trap. Un graffiti pop.
Sono riconoscibili, e adesso ci sarà da divertirsi a seguire le loro carriere soliste, avete sentito Frigobar di Franchino Bertolini vero?
Finalmente nei testi ci sono i social, la posizione Whatsapp, assieme alle solite sbornie, all’amore raccontato nei suoi dettagli, alle vacanze e ai bei ricordi. Le loro immagini non sono quelle foto mainstream che trovi in instagram, ma foto di particolari. Hanno fatto lo zoom e ti raccontano un dettaglio di concetti altrimenti triti come felicità e tristezza. La parola saudade non è arrivata così a Nord come a Roma, si è fermata a Napoli, ma loro lo sanno raccontare, questa nostalgia. Abbracciano i nonni in sogno, i ricordi sono strappati, ma non c’è paura nel dire che vogliono mangiare fino a stare male, sfidando idealmente gli ideali delle generazioni passate che hanno sofferto la fame. Noi guardiamo ancora le nuvole e la loro forma, siamo overskilled ma ci piace oziare. La linea della vita si incrocia tra due amanti (ripeto due volte questa immagine meravigliosa, perché Carl la richiama sia in Polaroid che in Notti Brave) e i platani diventano un simbolo ancor più in grado di descrivere l’amore di quel balcone che abbiamo qui in Italia, a Verona.
Ci ho pensato molto alla frase. La fine ad effetto sarebbe quella di dire che non può esserci, che è impossibile racchiuderli in una manciata di parole, ma invece io ve la lascio qui. Ci sono le sbornie, la saudade, l’amore e il fatto di essere in fin dei conti cazzari, giocando con le parole e divertendosi.
M’è scesa una lacrima di gin. Ciao regà.