Chiamami quando la magia finisce è il secondo album in studio di Tropico, pubblicato dalla Numero Uno. Arriva due anni dopo Non esiste amore a Napoli, esordio targato Island Records.
L’eventuale domanda “chi è Tropico?” possiede una quantità di risposte così vasta da far salire la fomo. Tropico è colui che ha scritto Due vite di Marco Mengoni, ma è anche la penna dietro Cenere di Lazza, Playa di Baby K, Musica (e il resto scompare) e, perché no, Italodisco.
Ma come le fomo migliori, il modo perfetto di aggirarla è colpirla da dietro.
E per questo, la risposta che voglio dare alla domanda di cui sopra è “colui che ha scritto, cantato e suonato il miglior album pop della musica italiana nel 2023.”
Quando di mestiere si scrive per altri, per definizione si tende a essere camaleontici. Certo, ci sono le cifre distintive. Tuttavia, si applicano molto di più (o forse, semplicemente, si riconoscono molto di più) quando l’identità è, in primo luogo e in altri lidi, ben definita. Un pezzo scritto da Ligabue, da Francesco Bianconi, da Riccardo Zanotti, è facile riconoscerlo: un pezzo scritto da Tropico, lo è meno.
Nonostante questo, Chiamami quando la magia finisce possiede una coerenza ineccepibile e un’ontologia centratissima.
Nato e cresciuto a Napoli, Tropico, all’interno del suo ultimo lavoro, essenzialmente ci ricorda tre cose. La prima, che Napoli, anche in hangover da vittoria dello scudetto, è viva e sta più che bene. La seconda, che l’era delle strofe aritmiche e quasi parlate è finita, e che siamo di fronte ad un (atteso e sperato) revival delle melodie, dei cantati e della composizione anche al di fuori degli incisi. La terza, che la musica pop è una cosa seria, e che per essere leggera non serve né immediatezza né superficialità, ma serve saperla fare.
Il viaggio di Chiamami quando la magia finisce passa dalla dance, alla “canzone che mi fa rimpiangere la storia d’amore dell’asilo”, alla “canzone che mi trasmette la nostalgia di serate che non ho mai vissuto”. Veleggia su misurate e frequenti transizioni tra l’italiano e il napoletano, tra incastri perfetti e giochi di parole inaspettati. È un disco in cui i pezzi si ascoltano almeno tre volte. La prima, mentre si tiene il ritmo con la testa e si apprezza la metrica ineccepibile. La seconda, per cogliere la profondità dei testi. La terza, perché “aspetta, ma dice davvero questo? Incredibile.” E poi, volendo, si ricomincia. E il livello di apprezzamento, di norma, va in crescendo ad ogni ascolto.
Così come il lavoro precedente, è ricco di collaborazioni. Da quelle già sperimentate e ormai consolidate, come Cesare Cremonini e Franco126, alle novità di Mahmood, Raiz, Madame, Joan Thiele.
Ad aprire l’album, è il battere pop-dance di Piccolo buio.
Durante il primo ascolto della title track, la mia cronologia in uscita di Whatsapp si è riempita di “che mina”, [emoji bomba], [emoji razzo], “no vabbè fra ma che roba”. In genere, quando la proprietà di linguaggio regredisce di almeno due decenni, significa che è un gran disco. La strofa scorre decadente (si dice che morire non è bello / ma morire per te lo trovo irresistibile), tra batteria, sintetizzatori e falsetto. Via via, converge verso il persi di Saturday night che apre il ritornello e svela il Tropico hitmaker, stavolta per se stesso.
In Fantasie, duetto simmetrico con Cesare Cremonini, la vocazione radiofonica dei beat dell’album si presenta prepotente. Trova qui spazio l’auto-citazionismo misto a consonanze sorprendenti (la verità è che siamo vulnerabili / lo sai che non esiste amore a Napoli? – canta il bolognese nella seconda strofa, creando di fatto un’eredità della musica di Tropico). Tra i synth e il pop, è in questo brano che si intravedono accenni dell’indie, nella sua caratteristica di prestarsi ad essere cantato in gruppo. L’inciso recita accorgersi che era bello per te perfino morire in un perfetto coro da club, palazzetti e stadi.
Ubriachi di vita è l’unica vera ballad dell’album, dotata di una potenza quasi animale mentre la strofa più parlata di tutto il disco si dispiega limpida e confluisce penetrante nel ritornello pomposo. Ed è proprio qui, precisamente durante hai un’autostrada che ti brucia negli occhi questa sera / se quando è buio mi fai un po’ sbandare sulla tua schiena, che ho pensato che alla fine quella ragazza all’asilo non era male, e che forse le dovrei riscrivere.
La ritmica forsennata nelle strofe riparte in Zona Nord, duetto con Franco126 (la strada mi conosce, potrei farci le interviste / ti ho amato sempre anche in un mondo che era triste). Prosegue in Che Mme Lassat’ A Fa, secondo singolo estratto e pezzo più rappresentativo del disco. Il napoletano della strofa e del ritornello si fondono con l’italiano dei pre-ritornelli. Le 8.30 sulla meridiana diventano le sette e sette come Kvaratskhelia man mano che il brano procede, invocando una danza sul lungomare partenopeo in pieno stile Bar Mediterraneo, con una punta recondita di fado da città di mare e di confine – qualunque esso sia.
La presenza di Napoli, man mano che il disco prende forma, si fa sempre più viva.
In Nun Ce Sta Poesia, dichiarazione d’amore di allegria travolgente tra l’eredità ellenica della Sibilla Cumana e Bagnoli Futura. Nella dance nostalgica à la Nu Genea di E Cose Ca Fann Sunnà, interamente in napoletano. In M’arricordo e Te, che vede la partecipazione di Raiz, e che ricorda da vicino Onda che vai, che gli Almamegretta portarono a Sanremo 2013 e che fu vittima innocente dell’incomprensibile meccanismo a eliminazione di Fazio. E nella conclusiva Anima e Notte, in solo e in duetto con Madame – una delicata carezza con una chitarra portoghese pizzicata, un fado da fine serata che è inizio di mattina in spiaggia, d’estate.
Nel mezzo, il duetto con Mahmood in Televisione, in cui il timbro caldo e riconoscibile dell’artista milanese dona un’atmosfera desertica al racconto della noia Kierkegaardiana della televisione in sottofondo nel salotto. Gotha, forse il brano migliore del disco, riflessione in levare su un rapporto arenato in un’epoca di poteri forti, con il provocatorio inciso tu una scheggia impazzita / io che ho voglia di vita / chiama la Von Der Leyen. E la title track e primo singolo, Chiamami quando la magia finisce, che da sola fece un lavoro di cesello nel trasmettere l’intenzione dell’album. L’incipit con riverbero e sintetizzatori, tra versi misti in italiano e napoletano, si trasforma in un beat incalzate in battere, si interrompe bruscamente su non voglio nessuno / nessuno che non ha gli occhi tuoi, e riparte con un ritornello ultra-pop e super accentato.
È importante avere una visione, ha scritto Tropico sul suo profilo Instagram il giorno dell’uscita dell’album, richiamando una delle tracce del disco.
Certo, è indubbiamente importante. Alla pari, però, lo è avere i mezzi per renderla terrena. Le capacità compositive, le doti liriche, la voce. E ancor più che avere una visione, è importante conoscere la musica pop così a fondo, da capire quali sono gli ingredienti fondamentali per realizzarla. Certo, la leggerezza, lo dicevamo sopra. Ma anche l’onestà intellettuale. Un certo tipo di appartenenza (geografica, comunitaria, di argomenti). Capire che la musica pop è la musica che passa nei non luoghi di Marc Augé come i supermercati e gli aeroporti, e che suona mentre le persone fanno altro, nelle cuffie in metro o alla radio in macchina. Ma è anche la musica dove ritrovarsi, e dove più che altrove si cerca di essere capiti, desiderando versi e suoni da prendere in prestito per le sere a casa da soli o per gli aperitivi al bar.
Due giorni prima dell’uscita del disco, Kvaratskhelia è tornato a segnare dopo mesi in Serie A, e il Napoli ha vinto 4-1 con l’Udinese. Due giorni dopo, 4-0 al Lecce. Avevo pensato, mentre aspettavo che l’album uscisse, che poteva essere un sostituto del calcio nel donare gioia e identità alla città partenopea. Forse non ce ne sarà bisogno. Ma comunque, ora i Kvaratskhelia sono due. L’attaccante georgiano in senso stretto, Tropico nel panorama musicale italiano in senso lato.
Filippo Colombo
Predico bene razzolando insomma, mi piace mangiare la pizza a colazione, odio i concerti dove si sta seduti.