Quercia: arbusto sinonimo di resistenze ed adattamento ai cambiamenti temporali.
Nel 2016, la band sarda esordiva con “Non è vero che non ho più l’età”: da Nubi fino a Sempre lividi, il racconto acerbo del passaggio all’età adulta con il carretto di diktat, frustrazioni, velleità spente. 2019, “Di tutte le cose che abbiamo perso e perderemo”: il rapporto con il vuoto, le perdite che in maniera costante ci caratterizzano.
2023: “Dove si muore davvero”.
Il cammino, il vuoto, il buio.
Cammino coerente quindi: un vortice tetro e costante verso l’abisso. In realtà, la sensazione che tale ragionamento sia troppo semplice (e anche un po’ scontato) ci viene già dal titolo stesso, da quel “davvero” rafforzativo che sembrerebbe essere inutile nella narrazione. Perché dovrebbe esistere un posto dove si muore “davvero”? La morte non è un concetto già di per sé assoluto?
Il disco si apre con Crollo, traccia che capovolge il concetto (ahimè, oramai abusato) del kintsugi.
“Aggiustare un vaso con l’oro non lo rende più forte, non lo rende più utile, smette comunque di esistere”
Quel che si rompe termina il proprio ciclo vitale, cambia per sempre. Accettare il tempo che scorre, accettare che le nostre paure viaggiano e fluttuano con noi. Una evoluzione che non va per forza magnificata: esiste e ci travolge.
Affogare è la sorella maggiore di Crollo. La perfezione, la presunzione che saremmo pronti ad affrontare ogni percorso.
“Respira, purtroppo non sempre puoi farcela”
Anche l’affogare assume l’idea dell’inevitabile. Contro la società della vittoria e delle totipotenza, i nostri vestiti sbiaditi non raccontano niente di noi.
Confini è il primo spartiacque. La solitudine egocentrica delle prime due tracce diviene incomunicabilità. Subdola, strisciante ma presente. È costata energia, addii.
“Per renderci conto che i confini che ci univano sono gli stessi che adesso ci separano”
Essere vicini ma inconciliabili. Il vuoto non ha sfumature: è qualcosa di concreto.
Come per le prime due tracce, anche Non mi vedi ha un severo fil rouge con Confini. L’incomunicabilità diviene annichilazione. Il narratore ha voglia di annullarsi, smette di essere reale e fisico. Si annulla il pensiero, il pensiero di pensare.
“Questa voglia di sparire. Sta diventando più grande di me”
Perché pure a sparire ci si deve abituare (cit).
Il pensiero come tormento è scheletro anche di Chiasso. Ogni respiro diviene difficile, la sensazione di buio è per l’ennesima volta realtà: la solitudine della notte fa a pugni con il titolo della traccia.
“Urla stanche colano su ogni mio pensiero al buio, ogni dubbio è un chiodo dentro”
Guarire è traccia che divide a metà il disco e punto di discesa più basso dell’abisso narrativo. Il titolo presupporrebbe uno squarcio nel velo: non è così.
“Preferirei un braccio frantumato a questo male invisibile”
Il protagonista è apolide, senza meta e senza speranza alcuna. È l’attimo prima dello shock, quando l’aura della fine è densa e l’angoscia scuote le carni.
Pietre fredde è una traccia marmorea caratterizzata da affermazioni al presente indicativo del verbo essere terza persona singolare.
“Ciò che sono è il vuoto che cala su tutto”
Il solco narrativo delle precedenti tracce diviene scritto, una tetra dichiarazione d’intenti. Se Guarire è il punto più basso della perdita di punti di riferimento, Pietre fredde è la conferma di tutto quello che abbiamo ascoltato e deglutito finora.
Nel contaminato scenario screamo italiano, frutto di interconnessioni maturate e snaturate nel corso degli ultimi venti anni, ai Quercia va dato atto di una crescita descrittiva e narrativa mai banale e mai easy listening. Hanno navigato in un mare musicale rapidamente cangiante ma attrezzando le loro imbarcazioni senza sostare nei lidi più tranquilli.
Il loro essere sardi (aspetto sempre troppo calcato da parte della letteratura musicale) è sicuramente una delle chiavi esplicative ma, analizzando i testi, l’egocentrismo tormentato delle loro tracce non è merce da vendere al mercato, non è qualcosa di esportabile su larga scala.
È questa loro intransigenza narrativa la chiave di volta.
Il loro è uno screamo profondo, blu.
Promemoria è una traccia che ricorda molto il disco precedente: l’ultimo saluto, l’ultimo respiro, l’ultima consapevolezza.
“Non c’è modo di sapere quando un saluto sarà l’ultimo”
Gela il sangue ascoltare la scientificità che lega la fine ai promemoria, in un memento mori sanguinoso e dal battito rallentato .
Quadro (con Her Skin) e Scisto (con Øjne) sono le prime collaborazioni della band con artisti esterni.
Nella prima traccia ritorna il tema della fredda calma nel pensare alla propria dissoluzione. L’utilizzo di un quadro, oggetto capace di duplicare la propria immagine, pone l’attenzione su dettagli anatomici incompleti: sfocato, tutto perde di significato. In Scisto, traccia che picchia come benzina sul fuoco, troviamo la strofa che regala il titolo al disco. Traccia urlata in un buio senza eco, terribile nella sua costruzione, glaciale.
“Per riposarmi dove si muore, dove si muore davvero”
L’eterno riposo e le procedure propedeutiche ad esso, la perdita dei sensi, la perdita della sensibilità e della motilità.
Pavimento chiude il disco. È elemento fisico che schiaccia il protagonista ma che lo tiene anche ancorato al mondo reale, alle parole che lo hanno ferito.
“Quanto mi rimane? forse un istante, per rimpiangere chi sarei potuto essere…”
Qualcuno potrebbe pensare che il disco rappresenti la chiusura di una trilogia dell’abisso iniziata nel 2016. In assoluto non è sbagliato: la linea narrativa è coerente e costante. Come anticipato, è proprio nella coerenza narrativa il diamante grezzo dei Quercia. Il loro screamo profondo, potrebbe quasi essere un genere a sé stante. E sono certo che ne sarebbero fieri.