Il greco antico, grammaticalmente parlando, contava fino a tre: uno, due, due o più. Oltre al singolare “io” e al plurale “noi”, la lingua greca conteneva anche il duale “noi due”, che non esprimeva una mera somma matematica bensì un’entità duplice: due gemelli siamesi. Il duale è il patto, l’accordo, l’intesa fra due parti. Ed è sicuramente anche la coppia, ma più precisamente la dualità, sintesi di due elementi diversissimi ed opposti. Il duale è al contempo alleanza ed esclusione, il contrario di uno e dunque il contrario della solitudine. Uno più uno per i greci non risultava semplicemente due, ma “uno formato da due”.
“Gemelli” di Ernia è un album al duale, formato da due modi di esprimersi in musica che appaiono di primo acchito antitetici ma che in realtà si completano ed intersecano. Beat tostissimi e flow mostruosi si mischiano a ballad delicate dallo strofare nettamente più lento. L’amalgama che ne esce è duale nel senso più puro del termine. Ascoltando la tracklist per intero non possiamo evitare di rimanere stupiti dall’equilibrio perfetto creatosi fra questi due stili. Così perfetto da non riuscire quasi a distinguere la linea di confine che separa uno stile dall’altro, ammesso che questa linea ci sia per davvero.
Uscito il 19 giugno scorso per Island Records, “Gemelli” non è stato anticipato da nessun singolo, scelta piuttosto unica per la promozione di un disco, ma senz’altro in linea con quanto detto finora. Estrarre un brano da un insieme così eterogeneo di pezzi avrebbe significato letteralmente “sbranarne” (farne a brani, a brandelli) la portata e il senso.
La doppia anima scandagliata in “Gemelli” mi ha portato ad individuare due possibili percorsi all’interno del disco, in grado di giungere entrambi ad una stessa meta. Due itinerari musicali che partono da due dualità. La prima riguarda il dualismo fra la vita e la morte, mentre la seconda si caratterizza per la contrapposizione fra amore e odio.
Vita e morte
“Vivo” e “Morto dentro” sono due tracce che si pongono fondamentalmente la stessa domanda. Quanta morte può esserci dentro un cuore che batte? Quante piccole morti occorrono per renderci finalmente conto di essere vivi e vegeti, sopravvissuti, feriti ma non sconfitti? Mi torna in mente Vasco Rossi e quel suo “vivere anche se sei morto dentro” che di fatto è un continuare a vivere nonostante il battito a volte si fermi. Come succede in “Superclassico”, di fronte a ciò che abbiamo passato, o di fronte a chi ci passa davanti per la strada.
In “Morto dentro” c’è spazio anche per quel rap italiano che fa a gara a misurarselo. Ecco allora che le orecchie corrono subito alla canzone successiva, “Non me ne frega un cazzo”, e al featuring con uno dei più longevi e sinceri rapper nostrani, Fabri Fibra. Ma la nostalgia vera e propria, il ritorno alle origini, il viaggio in un tempo bambino, si consuma con “Puro Sinaloa”, tributo al rap che ci ha cresciuto. Un pezzo che omaggia i Club Dogo, “Puro Bogotà” uscito ormai nel lontano 2007, quando ci si rifugiava nella musica “per non annoiarsi più alle panche”, come canta Ernia stesso in un altro pezzo di questa mia carrellata, “MeryXSempre”.
È la noia che si può cancellare per qualche tempo, sognando di diventare Bono come in “U2”, ma che in realtà “si combatte con il calore umano”. Ed è quella stessa noia che forse ci costringe, da adulti, a restare fermi, come “Ferma a guardare” è la mela marcia nel visual che accompagna l’omonima canzone.
In tutte queste ultime tracce, citate qui a catena, regna una sorta di inquietudine, quella di chi si sente “Fuoriluogo” in mezzo a “cose che non sanno confortarmi”. Fuori luogo rispetto alla vita, ma anche rispetto alla morte, in un’esplosione di “Bugie” che ci condannano a giocare a nascondino dentro labirinti sempre più complessi.
Odio e amore
Se il primo percorso che ho individuato consta di ben dieci brani, il secondo si accontenta di due sole tracce: “Pensavo di ucciderti” e “Cigni”.
Nella prima, c’è un “ti amo e poi ti odio” che ricorda quasi Catullo. Curioso è il fatto che la canzone stessa non parli di amore nel senso più idealizzato e mainstream del termine. Non è l’amore di una coppia, quanto l’amore che governa le nostre relazioni nella maniera più ampia possibile. Si parla di amicizie, tradite o ritrovate. Amicizie che, per restare al Catullo citato prima, proprio in latino si dicevano “amor”, laddove il “ti amo” tipico delle coppie diventava un “diligo te” (letteralmente, “ti scelgo”) che non sganciava mai gli affari del cuore dai pensieri del cervello. Si ama scegliendo, anche con la testa: questo brano ce lo ricorda.
E ce lo ricorda anche “Cigni”, una canzone fatta di ghigni che nascondono macigni. Ad un ascolto superficiale, potrà sembrare la classica traccia da “vorrei ma non posso”. Per chi invece ha provato sulla propria pelle ciò che Ernia canta in questo testo, il vero nucleo narrativo parla di ben altro. Un “vorrei ma non sono capace” che ci riporta alla contrapposizione fra vita e morte analizzata prima. Vorrei amarti, ma poi non sono capace e ti odio. Vorrei vivere, ma poi non sono capace e muoio dentro. Come uscire da queste dicotomie? Come riuscire a far pace con i gemelli diversi che abitano noi stessi? Sembra quasi la trama di un thriller psicologico.
Abbiamo detto che il duale è il contrario della solitudine. Ma la prima vera solitudine è l’incapacità di tenere compagnia a se stessi, accettando anche le nostre contraddizioni. Scrivendole, per esempio, e cantandole. “Sono solo adesso” ci dice Ernia, proprio in “Cigni”. Sono solo adesso, sono io. Duale: uno formato da due.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.