È una domenica particolarmente uggiosa. L’autunno, ormai cominciato, fa capolino tra gli alberi ramati, le nuvole che aleggiano basse e i maglioni sono già pronti per l’inverno imminente. Il nuovo album di Salmo è uscito da qualche giorno (venerdì 1° ottobre), ma per metabolizzarlo e poterne scrivere con cognizione ho dovuto darmi del tempo. Due sono i motivi fondamentali: il contenuto del disco – di cui vi parlerò in questo articolo – e tutto ciò che invece vi gira attorno.
Di “tutto ciò che vi gira attorno”, Salmo stesso è elemento principe.
Un personaggio che attira su di sé polemiche, critiche, elogi e rimproveri. Un artista in grado di essere al tempo stesso mai simile e perennemente uguale. Di più: Salmo è un crogiolo di situazioni, dove l’irriverenza si scontra con il giudizio altrui senza che apparentemente vi siano mai dei vincitori.
Dal concerto non autorizzato ad Olbia alla campagna pubblicitaria messa in atto proprio per l’uscita di FLOP, tutto concorre ad insinuare il dubbio che il lavoro discografico (e non solo) di Salmo sia mosso dall’inflazionatissimo slogan del “purché se ne parli”. L’ultima polemica, ma solo in ordine cronologico, ha riguardato l’installazione a Milano Centrale: un manichino di Salmo appare investito da un’auto ed esposto in bella mostra, cosa che ha fortemente indignato l’Associazione Vittime della Strada. Certo, abbiamo tutti visto di peggio. Ma anche di meglio, e forse di meglio si poteva fare.
Proprio in considerazione di questa lunga premessa, sorge spontanea una domanda. È ancora possibile (o lo è mai veramente stato?) separare l’arte dall’artista, la musica dal musicista, il lavoro da chi lo ha compiuto? A maggior ragione, la domanda si fa più complessa nel momento in cui la stessa campagna di marketing si rivela essere in un certo qual modo arte, musica e lavoro. È infatti arte l’esposizione di studiatissimi billboard 3D per le strade di Milano. È musica l’installazione di cui ho scritto poc’anzi, rumorosa nel suo silenzio assordante. E allo stesso modo, il concerto di Olbia e le risposte impertinenti allo scandalo fanno tutte parte di quel lavoro che ha poi portato alla pubblicazione di FLOP e in generale a Salmo, inteso come artista, rapper e personaggio fuori dagli schemi. O magari così dentro agli schemi stessi da essere in grado di sovvertirli a suo piacimento.
Con questa domanda a fare da sfondo alle mie riflessioni, inizia l’ascolto.
Il “ritorno del salmone” è sancito da ANTIPATICO. Traccia caratterizzata da un titolo che è già programmatico e che forse riassume la descrizione di Salmo portata avanti nelle righe precedenti. Antipatico sì, e molto, ma “ancora in piedi come le scope” e in grado di far scattare l’antipanico quando si trova con un microfono in mano.
Preso atto del giudizio altrui nei confronti della propria antipatia, sembra che Salmo, nella traccia successiva, decida di sferzare l’attacco decisivo a chi, come me, ha parlato finora più del contorno che del contenuto: “dovessi crepare domani, direbbero strategia di marketing”. La produzione di Andry The Hitmaker accompagna la liberazione da quelle catene ingombranti costruitegli addosso e che forse non appartengono davvero alla sua musica, al lavoro autentico di chi come lui sceglie questo mestiere.
“Liberato dalle catene, sembrava impossibile ma MI SENTO BENE”
Con la terza traccia infatti si cambia registro, si cambia sound, si rinasce. CRIMINALE è caratterizzata da una vibe decisamente più rock e la denuncia si fa marchiata a fuoco.
“Adesso son tutti criminali, ma a nessuno frega più un cazzo della musica / Siamo diventati il sottofondo di un podcast, un balletto per TikTok / Sembra di vedеre un film senza colonna sonora”
Dal trampolino rock del brano precedente si vola dentro il flow “all’antica” di GHIGLIOTTINA con Noyz Narcos, un rap classico senza compromessi.
È il ritorno alle origini: come se, per ritrovare una direzione verso la strada da percorrere, Salmo avesse dovuto togliersi anzitutto i dolorosi sassolini nascosti nelle sue scarpe. Quei sassolini erano e sono sostanzialmente l’altra faccia di una medaglia chiamata successo.
“Vuoi la fama ad ogni costo e non sai come e il perché”
A partire da questi versi, Salmo ammette di sentirsi IN TRAPPOLA, nonostante le catene dalle quali, proprio grazie alla musica, si riusciva ad intravedere nei brani precedenti una sorta di liberazione. Nel pezzo seguente è il featuring con Marracash a sostenere questo stesso tema.
“Non sento più la fame dei sogni”
Questo pezzo, LA CHIAVE, brano decisamente più pop dell’intero album, sembra in un certo qual modo dialogare con la canzone precedente, a partire da alcune parole in comune – “qui mi sento in trappola, lasciami uscire”. Ma è comunque inutile guardarsi indietro con rimpianto: la chiave giusta per ricominciare a sognare “è sempre l’ultima del mazzo”. In altre parole, passare attraverso la prigionia di se stessi è a volte necessario per arrivare a dirsi liberi sul serio.
E libertà, anche per Salmo, fa rima con amore: KUMITE arriva come un fulmine a ciel sereno.
Non è un amore lineare quello cantato in questo pezzo. Complicazioni, incertezze e la giusta dose di masochismo vanno a caratterizzare un brano musicalmente piacevolissimo. La miscela si rivela vincente e sembra quasi di assistere ad un vero incontro di kumite: l’eleganza dei beat e la lotta disperata narrata nel testo vanno a fondersi in una sorta di danza guerriera, sul tatami steso ad arte dalla produzione di Takagi & Ketra. Ma è difficile che l’amore riesca a far volare Salmo: “dovrei esser flessibile, ma è come far volare con un soffio un dirigibile” confessa in CHE NE SO.
“Santa ignoranza che veglia su di me / Pensavi che io fossi un grande e invece no / E alla fine sai che c’è? / Meglio se non mi fai domande, io che ne so”
L’unica risposta che troviamo a qualsivoglia interrogativo sta forse nel featuring immediatamente successivo, quello con Gué Pequeno in YHWH. Fra la sperimentazione sonora che fa da sostrato a tutto il pezzo, infatti, alcune parole fanno risuonare come macigni il senso di un lavoro che – iniziamo adesso a capirlo – tutto può essere definito tranne che un FLOP.
“La mia religione spiega come ribellarsi / Usare le parole per dеpositare le armi / Nascondersi nеl gregge cosa può insegnarvi? / Nessuno può sentirsi libero se è come gli altri”
“Nessuno può sentirsi libero se è come gli altri”.
Ecco allora che Salmo vira di nuovo su ritmi diversi dalla sua abituale comfort zone. Dalle sonorità rock ‘n’ roll anni Cinquanta di HELLVISBACK 2 (chiaro riferimento al suo quarto album in studio, datato 2016) a quelle country blues di A DIO (con le chitarre di Alex Britti, co-autore del brano e che abbiamo già visto duettare con Salmo nel singolo Brittish).
Due canzoni sorprendenti, capaci di aprirci orecchie e sinapsi in vista della più spinta FUORI DI TESTA. Si salta, si poga ma poi si arriva a MARLA, seconda canzone d’amore del disco dopo la precedente KUMITE. È il turno di un sound decisamente più jazz, meno incisivo forse di KUMITE stessa. La sua melodia malinconica ci catapulta verso L’ANGELO CADUTO, chiaro riferimento alla copertina del disco, evidente tributo all’opera omonima di Alexandre Cabanel.
Shari canta l’intro e sembra quasi innalzarci dentro una dimensione parallela
Nel modo in cui Salmo interpreta questo brano trapela, forse per la prima volta, una velata dolcezza, confermata anche da alcune linee del testo stesso, che sembrano dare voce a quella lacrima solitaria che luccica in copertina.
“Tu sei la canzone che non so scrivere, ricordati di me per sorridere”
Prima della divertente ALDO RITMO, ultima di queste diciassette intensissime tracce, c’è VIVO. Il monologo, intriso di poesia, cui Josafat Vagni presta la voce, ci accompagna alla conclusione del disco, insieme a FLOP, eloquente title track.
Dopo aver ascoltato l’ultimo album di Salmo, in una domenica uggiosa, possiamo dire di essere riusciti a separare l’arte dall’artista, la musica dal musicista, il lavoro da chi lo ha portato a termine? Forse no, perché non c’era niente da separare e niente da cambiare. La realtà dei fatti risiede, probabilmente, in qualcosa di più psichedelico e cangiante.
Siamo abituati per inerzia ad attaccare etichette dappertutto. “Buono”; “Cattivo”; “Giusto”; “Sbagliato”; “Bizzarro”; “Normale”; “Successo”; “FLOP”. Etichette senz’altro facili da usare, perché ci risparmiano lo sforzo di riflettere. Ma poi sono anche appiccicose, proliferano e diventano un vizio. Allora si è portati a credere in queste etichette più che nella realtà stessa, da esse designata. Il guaio però è che la realtà consiste proprio nell’esatto contrario. Sfumata, paradossale, complessa: è tante cose, tutte insieme. E sfugge alle sue rappresentazioni. Forse è per questo che spesso non andiamo bene al mondo: la gente che lo abita non fa che parlare di libertà, sempre e dovunque. Ma la regina delle libertà è anche questa: essere liberi dalle etichette.
Liberi di autodefinirsi un FLOP, senza minimamente esserlo.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.