“E vissero feriti e contenti” è l’happy ending di Ghemon?
Quasi mai è cosa facile o indolore, ma arriva sempre il momento dei conti con se stessi, giusto per portarci avanti con le citazioni.
Per chi scrive di musica è imprescindibile legare recensioni, interviste ed approfondimenti a vissuti personali, tracciando paralleli romantici totalmente arbitrari fra le parabole artistiche date in pasto alla pubblica piazza e gli intimi tumulti che non fregano a nessuno. Anche perché le canzoni nascono per demonizzare il disordine che si ha dentro, per avere una visione (che va oltre la visuale) e scandire i mesi, gli anni che tracciano il percorso evolutivo di una persona e della sua mente creativa. Ed è raro non ragionare usando come riferimento gli anni quando si parla del tempo che intercorre nella pubblicazione di due album. Significa che qualcosa è cambiato (giuro, non lo sto facendo apposta) in modo del tutto improvviso, come una folgorante epifania portatrice di repentini cambi di rotta. E quindi, di cose nuove da raccontare.
Lo scorso anno, al principio di una primavera beffarda, cercavo Ghemon per ascoltare i suoi pensieri e buttare giù considerazioni relative a “Scritto nelle stelle”, pubblicate poi su queste pagine; esattamente un anno dopo, i pollini, le fioriture ed i miei tentativi di sviluppare un pollice verde con un fantastico ficus regalatomi fanno da cornice al sottoscritto che si ritrova fra le mani il nuovo disco del nostro cantautorapper fresco di Sanremo. Forse ai piani alti hanno pensato “gli farò un’offerta che non potrà rifiutare”. Io accetto di buon grado, mi scrollo di dosso lo spleen e via all’ascolto.
Il suo era stato un cammino lungo e pieno di sorprese. Un viaggio fatto di magnifiche rivelazioni ma / anche lastricato di ostacoli / finalmente, però, era arrivato sulla sua personale cima
“E vissero feriti e contenti” si apre con un happy ending.
Può apparire un cortocircuito concettuale, ma proprio da questa necessità di giungere ad una fine (che coincide con un nuovo inizio) si inaugura una storia composta da quindici episodi; un continuo avvicendarsi di intro, brani, intermezzi ed outro fatti di ricorsività per irrobustire le trame di una narrazione espansa.
Come siamo ormai abituati, anche questa coproduzione Artist First/Carosello ci presenta fin dall’artwork di copertina il solito, nuovo Ghemon: capigliatura mai così folta, camicia ad ampio collo, cromatismi netti, sguardo enigmatico e felino pronto all’assalto. Il dettaglio a quattro zampe mi concede ben più di un attimo di entusiasmo. Ma sono gli occhi dell’artista a catalizzare l’attenzione, a metà fra l’atto di sfida e la curiosità verso chi gli si para davanti.
L’introduzione parlata sfuma, sopraggiungono le prime note. “Piccoli Brividi” suona pop e soul con un occhio di riguardo alla tradizione metrica, aprendosi con moderazione alle good vibes. Le tonalità di queste prime battute sono cangianti di calore, ma occhio a definirlo ascolto solare.
E ti spaventa la socialità / e quindi eviti le relazioni […] oramai hai fatto l’abitudine / a mesi di noia e solitudine
I soliti fantasmi risultano meno invadenti, ma sono sempre dietro l’angolo, come in “Tanto per non cambiare“.
Ciò che è stato sottoposto a radicale modifica è il modo di viverle le cose. Quella relazione che avevamo subodorato l’ultima volta continua a (r)esistere, presentandosi a più riprese nello sviluppo della tracklist. Un rapporto rafforzato, probabilmente, anche dagli scherzi pericolosamente simili a psicodrammi, buoni solo per fare conversazione. L’abbiamo palesato fin dalla presentazione che c’è un continuo gioco di riferimenti che si cercano e si trovano, e dal felino (domestico) in copertina ecco il felino sul pentagramma. “La Tigre” mi ricorda quanto è bello tenere testa alle personalità forti, ed il suo 4/4 dritto senza compromessi si lega all’invasione del perimetro reggae di “Difficile”; giochi di ritmiche in backbeat validi perché, come afferma lo stesso Ghemon, “mi prendo il coraggio di rischiare”.
Ecco il giro di boa che porta sonorità più leggere, un reprise che trasuda black music ed il singolone da traino.
“Momento perfetto” è la foto da prima pagina, ma personalmente considero “Infinito” il motore sotto il cofano di questa vettura sonica.
Seri? No, dico, siamo seri? Prova a ripetere che detesti Guerre Stellari e ti inizi a offendere. Certo che poi dico lo stesso se metti Morrissey o gli Smiths, la new wave come l’altra sera
Ecco sugli Smiths bisogna andarci sempre molto cauti. Tornando a noi, è lo stesso Ghemon ad affermare di sentirsi più libero, con meno paletti mentali quando si tratta di sperimentare; riesce naturale, con questo status mentale, che una struttura new house incontri una delle più immediate costruzioni cantautoriali: il racconto della quotidianità di coppia. In questo frangente, il primo René Ferretti di passaggio liquiderebbe tutto con una canzone da lieto fine, e invece…
Coup de théâtre
A volare troppo alto ci si può far male, Icaro insegna. Il mood si raffredda con “Puoi fidarti di me” mentre il quadro di lontananza tradisce la sua illusione in “Trompe L’Oeil”, fata morgana francofila, rovescio della medaglia sulla quale è presente “Rose Viola”. Dissolvenza a nero, titoli di coda, per congedarsi, sul flusso di coscienza di “Sparire” e l’ultimo skit che lascia in gola un retrogusto. agrodolce.
…e vissero feriti e contenti?
Il titolo di questo disco ricalca il “Kintsugi” cantato un po’ di tempo fa. Ghemon parla di vita e di felicità senza applicare cosmesi alle proprie ferite. Le cicatrici esposte fanno riaffiorare qualcosa di trascorso, restituendo un disco dinamico ed orientato alla narrazione, con dieci tracce in ascesa e cinque che discendono verso introspezioni inedite, decisamente meno violente e radicali rispetto a precedenti standard. Le tinte da “Mezzanotte” sono un ricordo, ma nonostante i colori e le giostre di questa Ghemonlandia c’è sempre un pizzico di quel bianco e nero che riporta a “Scritto nelle stelle”. Puoi essere preso bene quanto vuoi ma la venatura ombrosa finisce sempre per riemergere.
A margine delle disquisizioni più concettuali, Gianluca Picariello è conscio che la cifra musicale fissata con “ORCHIdee” ha segnato i tre long play successivi.
Su quella linea propone variazioni sul tema mentre le liriche assolvono perfettamente il mestiere del cantautore: raccontano storie, ne sviscerano le sfaccettature e coinvolgono facendoti sentire parte di incisi talmente personali da fare il giro lungo e diventare a loro modo universali. La padronanza della vocalità e i primi segnali di speech lasciano intendere che i prossimi passi sono tesi a svincolarsi dalla forma-canzone canonica.
Ghemon percorre la sua strada rafforzato dalle sue certezze, ed io un po’ ne sono felice ed un po’ mi rode il culo; perché una volta qui era tutta campagna ed ora invece ci sono solo trompe l’oeils.
Ma anche nei momenti che sembrano più solidi, l’artista e la persona dettano una formula che francamente non ti aspetti quando si tratta di vivere contenti. Forse dopo un anno il bilancio è in rosso, di una sfumatura che porta ricordi e voglia di abbracciare l’oblio.
Lascio il telefono spento per questa sera / lo faccio per tutelarmi, come forma di cautela. Perché l’ansia è stata sempre una pessima consigliera / e so che suggerisce quando ho le dita sulla tastiera