“Gibbone” degli I Hate My Village: un disco che fa bene alla musica italiana
C’è aria di libertà nel progetto I Hate My Village, e la si percepisce chiaramente anche nell’ultimo Ep dal titolo Gibbone. Quattro tracce che indicano direzioni diverse ma rese omogenee dall’approccio che si radica nel modo di intendere la musica dei singoli componenti della band. Le lunghe ore passate in tour, chiusi in un furgone, sono il parallelo con il gibbone che, chiuso in gabbia, cerca in tutti i modi la sua libertà, immaginandosi oltre le sbarre.
In un colpo solo gli IHMV stravolgono tutte le regole, d’altra parte stravolgere è il cuore della sperimentazione.
Dunque troviamo in un Ep di venti minuti una traccia di undici (Gibbone). Come un safari sonoro ed emotivo, il brano punta alle radici, rendendoci spettatori di un brodo primordiale che prende forma tra suoni che si sfiorano e si intrecciano, in un crescendo di bassi, che seppur discreto, disegna la linea cardiaca, il battito necessario a tenere tutto in vita. Ci sono le atmosfere africane, naturali, silenziose e deserte delle aree equatoriali, così come quelle notturne delle estreme periferie delle metropoli. Con lo scorrere della traccia il viaggio diventa sempre più un viaggio intimo, riaffermando l’accezione letterale di una psichedelia, intesa come dilatazione della mente e dell’anima, che si prende tutto. È certamente il cuore del lavoro e probabilmente la via più solida tracciata nell’Ep.
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Yellowblack, il brano d’apertura invece è il giusto tratto d’unione con il lavoro d’esordio della band, essendo anche l’unica traccia vocale della scaletta. Ami e Hard Disk Surprise concludono degnamente la tracklist. La prima presenta accenti funk; la seconda è più mirata ad acide sperimentazioni elettroniche/noise, con tastiere distorte che sembrano alla ricerca delle giuste frequenze, ma che ci ricordano quanto sia importante, a volte, il viaggio più della meta.
La sperimentazione è anche nella modalità di registrazione analogica, quasi una lunga jam session catturata su un quattro tracce.
Per comprendere però la giusta coniugazione tra libertà di sperimentare e capacità di realizzare un buon disco, bisogna soffermarci sulla qualità dei componenti della band. A partire dai fondatori, Adriano Viterbini e Fabio Rondanini sono artefici di tanti progetti di qualità, dai Bud Spencer Blues Explosion ai Calibro 35, per arrivare a Marco Fasolo dei Jennifer Gentle, e Alberto Ferrari dei Verdena. Quest’ultimo non è presente in Gibbone, ma parte importante della band sin dall’esordio del 2019.
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Gli IHMV sono più volte stati definiti superband, ma questo aspetto va capito bene. Spesso questa etichetta si utilizza per operazioni che sommano nomi importanti, senza poi badare troppo al risultato. Qui invece si può parlare di una band super proprio perché ognuno si mette a disposizione di un progetto completamente nuovo e sperimentale. Ognuno lascia da parte il passato e si porta dietro il proprio essere musicista e ricercatore, senza l’assillo di cercare nicchie di “mercato” da occupare.
Gibbone fa bene alla musica italiana perché rompe, devia dal percorso intrapreso da mode e tendenze.
Per certi versi riafferma l’origine di quello che era l’indie negli anni zero. Non schiavo della lingua italiana né del ritornello facile, molto centrato sulla ricerca delle sonorità internazionali e poco propenso a ripetere schemi del passato.
Del resto la biografia dei quattro parla chiaro. Viterbini è un chitarrista che ricerca suoni dal mondo, a partire da quelli del blues rurale fino alle influenza africane condivise sul palco anche con Bombino; Rondanini con i Calibro 35 partecipa a un progetto strumentale, senza l’ossessione del testo, che gira il mondo da un decennio; Fasolo con i suoi Jennifer Gentle, è stato il primo europeo a firmare un contratto con la Sub Pop, l’etichetta di Seattle che ha fatto la storia del grunge con i Nirvana e non solo; e poi Alberto Ferrari dei Verdena, rock band che a fine anni Novanta, seppure cantando in italiano, ha viaggiato su sonorità internazionali senza concedere mai nulla al commerciale, continuando ad essere una delle band migliori ancora adesso.
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Gibbone è il secondo passo di una band solida che tratteggia un percorso sincero, prezioso e alternativo sia al mainstream che a quelle tendenze indie nostrane iniziate per certi versi col cantautorato di Dente e Brunori alla fine degli anni zero, e ancora di più con l’esordio de I Cani, e l’esplosione di Calcutta e Thegiornalisti negli anni seguenti. Gibbone, e altri dischi liberi come questo, sono anche l’occasione per andare ad analizzare l’anatomia delle scena musicale indipendente e il suo sviluppo almeno degli ultimi vent’anni, per riordinare alcune idee sulla musica che stiamo ascoltando e che forse scegliamo sempre meno, non tenendo nella giusta considerazione, nel bene e nel male, percorso, biografia, approccio e capacità. Anche per questo lunga vita agli I Hate My Village.