Scrivere un testo equivale a rinunciare (non capirò mai se in maniera positiva o negativa) ad una parte di sé. Si entra in scena sul palcoscenico del mondo e ci si espone: senza maschere, senza filtri. Scrivere per raccontare/rsi e conoscere/farsi conoscere. In questo concetto, estremizzato per necessità, c’è il bisogno di un essere umano/artista/anima semplice di essere voce e respiro. Incuriosito? Se quel che ho scritto in maniera anche abbastanza banale vi affascina, beh, dovreste ascoltare “IO, ME & LUCA”.
È un lavoro discografico immenso. Dieci tracce per altrettanti racconti di vita interconnessi, pieni di correnti, perplessità, difficoltà, voglia di rinascere. E voi penserete (lo farei anche io): “ce ne saranno mille con queste caratteristiche”. Perché, quindi, lo si dovrebbe ascoltare? Ma, soprattutto, chi è LUCA?
Il disco si apre con Ciascuno ha quello che si merita. Il narratore è Pierpaolo Capovilla (Teatro degli Orrori) che legge Antonin Artaud.
L’artista francese, internato in manicomio (quindi ben conscio del dualismo malattia/cura) regala ai posteri un testo sanguinante e pieno di oscure speranze. La traccia, magica e macabra nel suo incedere, viene valorizzata da Capovilla come atto di estrema umanità: le mani inchiodate alla Croce sono le stesse che possono essere lavate e nutrite. È la traccia che apre uno squarcio nella tela, allargando la potenza emotiva e visiva.
“…e nessuno saprà dire più perché”…
Termina così la prima traccia, lasciando spazio a Dolore. La voce narrante diviene Alessandra Cimino. È il triste elogio del trapasso della giovinezza, della oscena gabbia che noi stessi costruiamo e che il mondo impacchetta. Il testo lascia senza parole, aizzando le ombre intorno a noi. La paura di perdere il controllo, la necessità della rotta che sfuma nella propria testa. L’ascoltatore è bloccato nei propri pensieri, il rapporto simbiotico è fisico, vivo.
Il disco si iscrive in un filone narrativo plurimetodologico che in Italia è stato spesso associato a élite o a scenari lontani dalla vita reale. Ma qui non siamo sulle barche delle Costa Smeralda a parlare della condizione degli operai di Carbonia: siamo nelle nostre camerette, nelle paure quotidiane e nella volgare speranza di autocontrollo.
È questa la prospettiva che ci porta al regno della notte, delle aree oscure del nostro cervello. Ma è solo una prospettiva, ricordatelo.
Il disco è lavoro di mattoni e malta, grani di un rosario psicologico e fisico che non merita settorializzazioni. Va ascoltato tutto di un fiato, come le lunghe autostrade in cui guidiamo solitari e spaventati dai giganti della strada. Buio e Incubo sono esattamente così: hanno il profumo dell’ignoto, respirano la sicurezza del prossimo Autogrill in cui potremo andare a urinare. È quel mezzo sorriso che ti inchioda all’acceleratore. La potenza dell’accampamento musicale è sottofondo e sovrastruttura polisensoriale. Se Incubo fosse plumbea narrazione sarebbe sembrata oscenamente reale: Lucio Leoni (Bucho) è la canna di pistola giusta.
LUCA è a metà del suo viaggio narrativo.
Gli incubi che lo spingono al Buio gli ricordano quanto il suo viaggio meriti di essere vissuto, analizzato, trascritto. Eppure, eppure. Come farà a tenere i piedi fissi al suolo? Quale colore avrà la boa che vorrebbe lanciare negli abissi della sua mente? E se non riuscisse a tornare indietro e il mondo non parlasse più la sua lingua?
Confine, Rabbia e Malattia sono tre funi che lo spingono alla deriva. La recitazione musicale si tinge di pause, il ritmo diviene irregolare. LUCA racconta ciò che non può essere classificato. Quelle che non può essere: l’umanità (il termine ha una voluta valenza grezza) negata.
“Rimango qui con amore e speranza, a sognare la felicità, la libertà della mia anima” (Malattia)
La negazione dell’umanità.
Si chiude così Malattia e si aprono Fluire e Arcobaleno. È, nello spazio di una battuta (vita come fugace nuvoletta) il tempo della speranza, della rinascita. Fluire è la manifestazione fisica dello scorrere, della purificazione. La musica, dai retrogusti ancestrali e medievali, estremo baluardo delle nostre radici, si avvicina molto alle sonorità sognanti del prog italiano. Nulla di più giusto: rinascere nel senso del ritorno all’origine, all’essere umani.
Arcobaleno è manifesto d’uguaglianza e di speranza globale in un mondo in cui ogni possa sentirsi amato e considerato nel suo mescolarsi di luce ed ombra. Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35) contribuisce alla sacralità del concetto.
Nel buio della notte (tremenda e impietosa) termina l’ascolto. Siamo giunti alla fine. Tutto ricicla all’origine. Pierpaolo Capovilla torna a leggere Artaud: “Mille amici, dieci uomini”. Pezzo sanguinoso, tra elettroshock e negazione della dualità. Essere uomini, vivere.
Negazione.
Termina qui “IO, ME & LUCA”. Un buon 50% di coloro i quali avranno iniziato a leggere questa recensione avranno già abbandonato: si parla di un disco senza sapere chi è il LUCA del titolo. Peccato. Io spero semplicemente si sia capita l’intenzione di non mettere dinnanzi la narrazione musicale la storia di LUCA.
Si, Luca è l’autore dei meravigliosi testi di cui avete appena letto l’umile recensione. È un ragazzo con “Disturbo borderline di personalità con associato disturbo bipolare”. Sue sono le poesie a cui un’associazione, la DOdiMatto, ha dato l’opportunità di sbocciare come musica. Sarebbe stato ingiusto iniziare questa chiacchierata introducendolo come un individuo “malato”: la banalità del pietismo mi avrebbe lasciato un terribile retrogusto tra le labbra.
Dare il giusto spazio alle pulsioni, alla musica. Ascoltare il disco e andare a leggere cosa c’è dietro: il lavoro immenso, l’atto d’amore disinteressato da/per LUCA. Ne sarete, giustamente, emozionati.