Ho capito solo ora la scelta dell’etichetta di non anticipare nulla di quest’album, in termini di singoli e recensioni, al pubblico. L’obiettivo era di far sì che il disco potesse essere esperito nella sua interezza, senza ascolti preventivi, di modo da coglierci tutti impreparati. IRA è un’opera che disorienta. È in grado di scardinare tutto d’un colpo le coordinate di riferimento a cui siamo soliti aggrapparci nel momento in cui ci troviamo ad avere a che fare con il nuovo, quando dobbiamo interpretarlo e, giocoforza, farlo nostro. Il contraccolpo che ne consegue ha una portata demolitrice potentissima.
L’atto di distruggere presume però anche quello della rinascita.
Il vecchio orizzonte mentale, un attimo prima raso al suolo sino alle fondamenta, risorge allora, spingendo i suoi confini ai limiti del concepibile, del pensabile. Allargandosi nello spazio e nel tempo. Siamo quindi finalmente pronti ad accogliere l’altro, quasi fossimo dei recipienti che assumono la forma di ciò che ricevono, a dispetto delle leggi della fisica. Un’immagine, questa, che bene rispecchia la condizione dello spettatore dinnanzi all’opera d’arte. Diventiamo cioè, anche noi, infinito. Ma non solo. Iosonouncane con questo album ha voluto realizzare qualcosa che “fosse più grande di lui”. L’opera che trascende l’artista. Che gli sopravvivrà.
“È come se mi si presentasse davanti un lavoro al quale io non ho partecipato. Qualcosa che è finalmente oltre me stesso, oltre il mio controllo, le mie possibilità. Oltre la mia volontà”.
Ancora una volta, spostiamo i confini giusto un po’ più in là.
Quanto basta per ripensare i concetti di umano e di arte. In IRA tutto rimanda alla pratica dello sconfinamento. In primis la lingua: una lingua definita “della necessità”, che mescola arabo, inglese, francese, tedesco, spagnolo e italiano. Una lingua che percorre distanze e che si perde, mossa dall’urgenza di comunicare ma che va inevitabilmente incontro al pericolo del fraintendimento, rispecchiando lo scollamento intrinseco alla facoltà del linguaggio, “tra la spinta a dire e la capacità di farlo”. Una lingua che risponde alla volontà del singolo di rinunciare in parte alla propria voce, per abbracciare quella di una moltitudine, che “spinge tutto in avanti”, irreversibilmente. Strumento tra gli strumenti, la voce “contribuisce alla pari di tutti gli altri alla definizione di un paesaggio simbolico, di un universo possibile, di una specifica narrazione”.
Anche per quanto riguarda la stesura delle parti della band, la scommessa era di tendere il più possibile ai limiti della fattibilità fisica, tenendo sempre comunque a mente che i musicisti potessero riprodurle, esattamente così come erano state scritte, dal vivo.
Un’opera monumentale, composta di 17 tracce, per un totale di 1 ora e 50 minuti di viaggio sinestetico tracciato interamente da un Iosonouncane compositore e arrangiatore, che spazia dal jazz, alla psichedelia, dalla musica nordafricana all’elettronica. Questa ricchezza di sonorità e di trame vocali ha richiesto, durante la fase di realizzazione, e richiederà, in prospettiva, anche al momento dell’esecuzione live, un impegno fisico e mentale considerevole. Lo stesso sforzo viene richiesto all’ascoltatore, che, giunto alla soglia delle due ore senza essersi concesso distrazioni lungo il percorso, rimette di nuovo i piedi a terra, frastornato, confuso, rigenerato, consapevole che quel viaggio alla fine l’ha cambiato. Irreversibilmente.
Scopo finale: proteggere la complessità, la stratificazione costituiva di un disco che si pone volutamente di traverso rispetto alla semplificazione imperante nel panorama contemporaneo, musicale e non solo.
Foto in copertina di Silvia Cesari