La musica di Birthh è una finestra sul mondo

Ho scoperto WHOA, l’ultimo album di Birthh, con colpevolissimo ritardo. E dico colpevolissimo perché è uscito a Marzo (per Carosello Records) mentre io l’ho ascoltato per la prima volta qualche mese dopo. Conoscevo già Birthh, ho avuto modo di apprezzare qualche canzone del suo primo album, Born in the woods, e la sua collaborazione con Myss Keta. Devo ammettere, infatti, di essere una grande fan di Keta, delle Ragazze di Porta Venezia e di tutti coloro che vi gravitano attorno. Eppure, nonostante l’abbia fatto in ritardo, sono felice di aver ascoltato WOAH con tutta la calma e l’attenzione che richiede il disco.

Birthh canta in inglese e questa non è una cosa scontata, anzi.

Fare musica in Italia e cantare in inglese vuol dire scegliere di rischiare. Vuol dire preferire una certa cifra stilistica alla quantità di gente che ascolterà e condividerà le tue canzoni. Penso a vari artisti che hanno fatto la stessa scelta, penso ai Jennifer Gentle, ai primi album di Joan Thiele e Wrongonyou, solo per citarne alcuni che sono i miei preferiti. Probabilmente all’estero avrebbero (anzi, direi che già hanno) un buon successo, mentre qui ci crogioliamo ancora troppo spesso in quei ritornelli abusati, rigorosamente in italiano, che trattano di amori finiti male e descritti con giochi di parole abbastanza discutibili.

Mentre ascolto WHOA penso che vorrei essere su una terrazza vista mare al tramonto, ma la semplicità e l’eleganza musicale dell’album riescono a rendere bello anche un posto ordinario come la propria camera.
Birthh

Quello che mi ha colpito, infatti, è proprio la linearità e semplicità del sound, in netta contrapposizione a tutti quegli artifici musicali a cui ci siamo abituati negli anni. Ma dietro tutto ciò, si percepiscono il grande lavoro e l’accuratezza che caratterizzano l’album. La musica di Birthh ha carattere internazionale, e infatti mi ricorda principalmente The XX e Bon Iver. Alcuni piccoli dettagli sonori, invece, mi ricordano Devendra Banhart, soprattutto in audio 1.  Altra testimonianza dell’internazionalità della musica di Birthh è il brano Ultraviolet, la cui seconda strofa è rappata dalla femcee statunitense Ivy Sole, unico featuring del disco.

Un’altra caratteristica che ho percepito subito è l’intimità, che emerge nei testi ma soprattutto nella voce dell’artista. Il suo apice lo raggiunge con Parakeet, un pezzo in cui la cantante ripercorre la sua infanzia.

Every other weekend and everything other Christmas eve, Sunday lunch with the bees, life can you please repeat? Money for ice cream, then once came the rabbit shepherd and with parakeet”.

Non è facile scrivere un pezzo del genere senza scadere nella banalità. Birthh riesce ad evitare questo errore facendo parlare spontaneamente la nostalgia ed esorcizzando il dolore sotto forma di canzone.

È questo che rende Birthh una grande artista, molto più di sui colleghi anagraficamente più grandi e/o artisticamente più affermati: il riuscire a smarcare la semplicità dalla banalità, la raffinatezza dall’artificio, l’indie pop dalle canzonette.

Ascolta qui Whoa di Birthh

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