Maru: un nuovo album per (non) prendersi sul serio giocando con i “Toi”
A distanza di due anni dal suo primo disco, Maru, cantautrice siciliana, torna a giocare per assaporare, in nove tracce, la sostenibile (e apparente) leggerezza delle scelte.
La verità è che tra le più ataviche e spesso inconsce motivazioni per le quali ascoltiamo ancora la musica è il bisogno di sentirci a casa, di trovare uno spazio comune nel quale identificarci.
Il legame stringente e necessario che si instaura con le canzoni dipende, nella maggior parte dei casi, da quella sensazione di saperci riconoscere nelle parole di un artista sconosciuto che ha la fortuna, l’ardore o la condanna, di saper esprimere certe emozioni, meglio di quanto saremmo in grado di fare noi.
Con queste premesse mi sono approcciata all’ascolto del nuovo album di Maru, “TOI” uscito il 27 novembre.
Ho giocato, dato che le circostanze lo richiedevano e il titolo lo suggeriva. Mi sono prestata e sono tornata a casa mia. Ho scoperto che io e Maru abbiamo in comune delle radici spartane, quelle del profondo Sud. Lei siciliana, io calabrese e quindi per me “toi” è innanzitutto un aggettivo possessivo, nella mia lingua madre (il dialetto), significa “tuo”.
È un po’ quello che succede quando decidi di fare musica: le tracce, nel momento in cui scegli di pubblicarle, si prestano a non essere più solo di te che le scrivi e le canti nelle più o meno segrete stanze di uno studio di registrazione, ma diventano di tutti.
Mi piace pensare che Maru in questo progetto discografico abbia voluto dire: prendi questo disco, è tuo, giocaci e fanne ciò che vuoi.
Il gioco della cantante siracusana inizia con un “test di usabilità”, un Free Trial condito da un arrangiamento elettro-pop. Una prova gratuita nella quale quella che si racconta con una nota di sarcasmo, è una relazione che serve da riempietivo, un passatempo che si snoda attorno a domande di circostanza. E quando finisce la canzone non resta che aspettare quella voce robotica che torna puntuale dal passato a dirti “Game Over”.
E invece arriva subito Elastici nella quale si intuisce fin dalle prime battute che per sviscerare i legami più profondi bisogna farsi metafore, toccare il fondo e risalire mollando i sensi di colpa, per ricordare com’era la vita prima. Prima che l’inferno della fine trasformasse tutto in vuoti di coscienza.
Ho dovuto tenermi dall’interno/Per non rivoltarmi la vita a volermi svuotare da te/ho costretto un intero universo/ad infilarsi ed infittirsi tra me e te.
Il compendio ludico prosegue con Coincidenze che mi ha ricordato una certa filosofia kunderiana.
Se per lo scrittore ceco la mancanza è il sentimento dell’ignoranza, per Maru mancarsi è solamente questo, vedere come va/Da un punto diverso /E noi ci sabotiamo lentamente/In mezzo a un pugno di gente.
E cosa sono le coincidenze? Se non significati che attribuiamo alle cose illudendoci che tornino a fare solo da contorno e da sfondo alla vita che scorre piuttosto che diventare gli spigoli di un passato nel quale inciampiamo per ricordarci quello che non possiamo più essere.
Quindi che ci resta da fare se non provare a spegnere i pensieri dormendo? E invece niente. Sonno contro è la notte che ti tiene sveglia, a cercare parole che ti diano conforto con l’assurda pretesa che siano in grado di racchiudere la tua essenza e che buttarle fuori o buttarsi tra le braccia di un altro basti per scacciare via certi fardelli dall’anima.
Col sonno contro/Il conforto di parole che conosco/E che mi descrivono/ Io sono quel che sento/Al limite massimo dell’aria che contengo/Ma stasera non posso/Divorerò la notte/I pensieri degli altri mi rimbalzano addosso.
Allora ci pensa una Quechua nella quale rifugiarsi d’estate annullando il peso di quei fardelli di cui sopra, camminando scalzi in spiaggia con le amiche, quelle sceme di sempre:
A piedi nudi non ci son più denti da spaccarsi/Cadendo in pezzi insieme ad altri e alla luce del sole/Questo corpo può arrivare dove vuole.
E quando anche gli amici diventano un “problema”, per risolvere l’ansia sociale, Vostok è il luogo ideale nel quale fuggire.
Un altopiano in Antartide per salvarsi perfino dai tormentoni estivi, dalle convenzioni che impongono di sottostare a certe regole implicite, solo per sentirsi parte di qualcosa o per essere “qualcuno”:
Chi si tormenta sempre a dire di no/Cede più facilmente alla stessa gente/Chi non lo fa, semplicemente/Ventilatori accesi, tv spente/Parole sante, parole dette/In situazioni in cui poi resti quello solo alle feste/A casa con i tuoi/Natale non puoi/Non eri nessuno al di fuori di noi.
Control+Z recupera il riferimento al linguaggio informatico ma si allontana dalle atmosfere elettroniche per giocare, tanto per cambiare, con l’R&B, sperando di alleggerire il carico di certe scelte audaci. E che basti cliccare “annulla” per fare un passo indietro.
Del resto, cosa sono le aspettative, se non il contrasto tra quello che immaginiamo che la realtà sia e ciò che poi si rivela?
Tanto vale “Vivere un giorno solo come le falene”.
Zitta è un grido al contrario, un singolo che segna l’intenzione potente di portare alla ribalta le urla soffocate nel divano per appagare un piacere deleterio e univoco. Perché l’amore è un mestiere ma per praticarlo serve delicatezza e la sensibilità di riconoscere che nei casi più estremi, il silenzio resta l’unica risposta possibile:
È che più forte di così non posso/Stare in piedi è già un miracolo/Anche più in fondo dove è tutto rosso/Non pensare che sia facile/Stare zitta quando serve
I giochi si chiudono, arriva il momento di mettere ordine e Maru sceglie una dimensione più intima alla quale affidare i suoi propositi.
Amare qualcuno significa arrivare in punta di piedi, essere di chi ti oltrepassa dentro e non pretende solo per questo, di possederti: Sei di chi ti sa toccare veramente/Di chi non cambia mai se dice cosa sente/Sei di chi non ti conosce neanche un po’/Ma ti perdona sempre
Insomma, alla fine dei giochi arriva il momento di prendere sul serio anche la voglia di giocare con gli errori di valutazione, con tutte quelle volte che abbiamo creduto nello sguardo di qualcuno che pensavamo potesse vederci davvero e decidere che in fondo va bene così.
Giochiamo perché abbiamo bisogno di prendere dimestichezza con la paura di perderci, perché spesso è solo perdendo che riusciamo ad appartenerci un po’ alla volta, un po’ di più.