Storie d’amore con pioggia e altri racconti di rovesci e temporali. Un disco con un titolo del genere può rendere estremamente arduo il compito di titolare l’articolo che intende recensirlo. Di fatto, ho impiegato più tempo a pensare ad un titolo per il mio pezzo che a scrivere di getto ciò che leggerete fra poco. Ovvero l’umile riassunto di quel che Murubutu sembra lasciare dietro di sé, quasi fosse lo strascico – appunto – di un temporale appena conclusosi. L’aria è umida, i vestiti inzuppati, ma la tregua delle nuvole sa rendere già più sereno il futuro.
Avevamo lasciato Murubutu al suo Infernum, un viaggio fra mitologia e contemporaneità con Dante a fare da sfondo e beat velocissimi a scandirne i passi. Il rapper emiliano è poi tornato – ormai un mese fa – con questa perla che ingloba in sé gocce di vita profondamente diverse eppure accomunate dalla stessa atmosfera piovosa. È la pioggia di parole che ci inonda come sempre quando Murubutu canta, ma è anche la pioggia di note che suggeriscono sonorità diversissime – dal motivo pseudo-reggae di Nuvole al mood più cantautorale de Il migliore dei mondi.
La vera forza di questo nuovo lavoro sta però – come sempre in Murubutu – nella densità poetica di contenuti che troviamo dentro i suoi testi.
Viene da chiedersi se questa forza non nasconda in sé il rovescio della medaglia. Ogni nuovo album rischia di essere un libro, un’antologia, un’enciclopedia di immagini a costruire scenari non più musicali ma, per l’appunto, letterari. Canzoni che si possono benissimo ascoltare fra i banchi di scuola, sussidi didattici che nulla tolgono ai libri di testo aggiungendo però loro nuova linfa e innovativi stimoli.
Docente di storia e filosofia, Murubutu è sicuramente conscio di questo e naviga in acque tranquille mentre cita Quasimodo, Joyce e Nabokov nel giro di pochi versi. E siamo solo al primo brano, quello introduttivo, che già dal titolo – Ode alla pioggia (intro) – sembra suggerire l’umore del disco.
A dispetto di ciò che potremo pensare, però, in questo album di Murubutu non piove sul bagnato, anzi. La freschezza di un sound cangiante sopra battute sicuramente molto simili rende questa giostra di parole, suoni e colori estremamente piacevole, nel suo essere al contempo variegata e consueta.
C’è ricerca e curiosità nella composizione di questi pezzi.
Una ricerca che prosegue incalzante come i giri di piano in Markus ed Ewa. Oppure come le atmosfere altrettanto ricercate di Une chrononaute à Paris, dov’è centrale la tematica del viaggio spaziotemporale, che ritroviamo poi in Pentagramma dell’acqua. Brano, quest’ultimo, dove gli arabeschi vocali di Dia suggeriscono le vibrazioni di una macchina del tempo intenta ad inseguire le impronte lasciate dalla malinconia dei ricordi.
Proprio i featuring, come quello appena citato con Dia, contribuiscono a spezzare la consuetudine di cui scrivevo poc’anzi. Da evidenziare il notevole apporto di Rancore e Claver Gold in Black Rain. Un apporto tanto incisivo da sembrare minaccioso, ma capace comunque di dare la spinta energetica giusta a tutto questo lotto di canzoni. Quindici tracce che è impossibile analizzare per intero senza sentirsi manchevoli di qualche cosa. Vuoi per l’incapacità intrinseca dei pezzi di Murubutu di lasciarsi fare a brandelli, a “pezzi” appunto. Vuoi per la già citata densità di contenuti, variazioni ipercromatiche sul tema acquazzoni e simili.
In questo album la pioggia è un medium narrativo, ma anche e soprattutto l’unico elemento che sembrerebbe in grado di fermare il tempo e le sue nefandezze. La prima nefandezza del tempo è forse il cambiamento, che noi esseri umani non sembriamo invece essere in grado di gestire pienamente. Ci spaventa, quando è positivo, e ci atterrisce addirittura, quando è negativo.
Ma la pioggia dilata le cose.
Ci dona un fermo immagine dei nostri film mentali, delle nostre illusioni sentimentali, delle nostre inutili speranze. La speranza, ad esempio, che le cose belle possano rimanere eternamente costipate nello spazio di un temporale, senza la minaccia di cambiare. Ci riscopriamo allora capaci di inventare, con la sola arma della nostra potente fantasia, infiniti mondi paralleli dove poter spostarci per recuperare le perdite – un po’ come il protagonista del videoclip pensato da Murubutu per Il migliore dei mondi.
Accettare la pioggia per quello che è – carica di ricordi e pensieri che devono evolversi per poterci far crescere – ci permette invece di accettare con più vigore il passato, il presente e il futuro. E non a caso il riferimento della copertina – realizzata da Julien Cittadino – è il celebre quadro di Caillebotte, Parigi in un giorno di pioggia. Un’opera di cui mi ha sempre incantato l’ampio sostrato di persone con l’ombrello aperto che percepiamo quasi sullo sfondo. Tanti ombrelli individuali, atti a riparare le ferite di ognuno e quelle di tutti in maniera composita. Per riparare, però, occorre prima accettare lo strappo: farlo proprio, nello spazio e nel tempo di un sottile quanto forte rammendo.
Così fanno anche queste quindici inedite e bellissime tracce di Murubutu. Quindici canzoni da ascoltare nella pioggia. Anzi, no: nel sole. In una di quelle giornate estive piene di luce e di allegria, perché solo così saremo in grado di creare il magico contrasto fra un tepore etereo e il freddo ispirato di gocce invisibili. Ed è esattamente in questo contrasto che ritroviamo l’atmosfera giusta per immergerci in Murubutu e nei suoi rovesci temporaleschi di parole potentissime.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.