“Sette Pezzi”: l’esordio di Santachiara è un posto lontano dai posti
Uscito lo scorso 27 novembre per SuoniVisioni/Carosello Records – e rieditato pochi giorni fa con l’aggiunta di altre due tracce inedite – Sette Pezzi è l’album con cui Luigi Picone, in arte Santachiara, ha deciso di debuttare. Se di primo acchito il minutaggio sembra scarso, la valanga di sonorità che travolge l’ascoltatore rende le sette tracce che compongono il disco estremamente piacevoli ed eterogenee, in una sorta di strano ed irresistibile loop.
Sette spose per sette fratelli, i sette nani, le sette isole Eolie e i sette re di Roma: storicamente parlando, il 7 è forse uno dei numeri più culturalmente e simbolicamente connotati. Sette sono le arti liberali, ma soprattutto i giorni della settimana: giorni ai quali ciascuno dei sette pezzi proposti da SANTACHIARA sembra far riferimento.
Lo si percepisce già dalla prima traccia, Weekend da cani, dove proprio la riflessione sul fine settimana apre le porte ad un lunedì nuovo. Un lunedì che però, al contempo, viene riproposto ciclicamente ogni sette giorni. Il brano è infatti la storia di un vero e proprio hangover, i postumi di una sbornia che lasciano dietro di sé il “grigio del cielo” con la gente che “sembra apposto mentre in testa c’ho Pearl Harbor”.
Negli strascichi di Weekend da cani si muove poi Silenzioso. Una seconda traccia che incarna quella rassegnazione tipica di chi si ritrova a mettere da parte i desideri, per paura che perseguirli faccia davvero troppo male.
Il silenzioso in testa, non sento più i miei vorrei
Come uscire dunque da tale impasse? Sicuramente una risposta univoca è impossibile, ma Lasciarmi andare rappresenta proprio l’apertura verso un’alternativa, complice un cambio di ritmo deciso e insieme graduale:
E accetterò le mie domande / Cercando i sogni e le speranze / Nel cassetto un po’ più grande
Aprirsi alla vita significa tuttavia cominciare a lottare, imparando a farlo ogni giorno. Ecco allora che Tutto gira sembra quasi rimandare ad un incontro di boxe letteralmente par-terre, per terra. Il morale è effettivamente a terra, ma brama risollevarsi, come un pugile caduto:
Io che lotto, Creed, la vita è un destro da Alì
I riferimenti alla pop culture non terminano qui e sono disseminati, invero, lungo tutto il disco. Ci sono i Dire Straits sparati in cuffia, quel “vivo swing” a suggerirci pure la traccia giusta (Sultans of Swing, 1978). Così come, nel brano precedente, l’assurdo gioco della vita è paragonato ad un film di Fincher. O ancora, in Weekend da cani, c’è quella voglia di pioggia dentro un cielo grigiastro, dove la pioggia è umana, come in Magritte (Golconda, 1953).
Una pioggia non dissimile ritorna poi in Alba, la traccia del risveglio vero:
Pioggia fuori, pioggia dentro, ma mi sento vivo
La consapevolezza della vita come “quel treno che ritarda e tu non sai aspettare” diventa anche la contezza di un mondo dove non esiste il male, “se ci siamo noi”. Un noi che è rapporto, relazione, coppia. Ma anche un noi che – come emerge dalla traccia successiva, Io e me – può significare solitudine, meditata e non sofferta. Una solitudine che porta con sé la melanconia buona di una tristezza dolce e pacata.
Siamo io e me sotto un cielo blu
Il lavoro di Santachiara si chiude con Quindi, traccia che – curiosamente e a differenza di tutte le altre – non contiene il titolo nei versi del suo testo. Quasi che quel “quindi” sia uno slancio verso il futuro, verso nuovi pezzi ancora da scrivere e cantare. Senza ipocrisia e con l’ambivalenza tipica di un amore che se ne va, c’è qui la confessione di un’incapacità che accomuna molte storie (“Non riesco a lasciarti andare”). Ma anche l’accettazione di una realtà ineluttabile (“La vita è così, ti mette con le spalle al muro”). E la certezza che per certe cose le parole stesse non siano necessarie, così come le definizioni (“Certe cose non vogliono un nome” e “Non mi serve che ci diamo un nome”).
Forse proprio l’ultimo di questi sette pezzi ci fornisce una chiave di lettura adatta per l’intero disco
Non è allora importante definire: se stessi, gli altri. Così come non è importante definire, in ultima istanza, pure la propria musica. Il sound di questo stesso lavoro è ben lungi dall’essere definibile. Un vero e proprio “non genere”, con cui Santachiara si identifica e del quale sembra andare orgoglioso. Un “non genere” classificabile per mood piuttosto che per stili, per sensi e percezioni piuttosto che per sonorità.
Unica costante: quella alcolica, con testi disseminati di negroni, cola col pampero, soda con il Ballantine, cognac, vodka, rum e Spritz. Perché alla fine, come cantano gli Zen Circus in Appesi alla luna, “la vita è solo un grande bar” e forse Sette Pezzi ci piace anche per questo. Durante il viaggio sulla particolare strada dei nostri stati d’animo e dei nostri umori, questo disco è la sosta davanti al bancone di un locale, in un “posto lontano dai posti” (Tutto gira) dove ristorarci per poi ripartire.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.