thasup e i suoi caratteri “speciali” per scrivere la musica del nuovo secolo
Mentre mi appresto a scrivere questo articolo faccio una scoperta sconcertante per componente della mia mente più atavica: thasup, pseudonimo dietro al quale si nasconde Davide Matttei è un classe 2001. Cioè praticamente è nato nell’anno del crollo delle Torri Gemelle, e di quella famosa puntata della Melevisione ne ha solo sentito il racconto.
Ciò di cui non mi rendevo conto io stessa, era che nell’approcciarmi alla sua generazione utilizzavo come scudo e come scusa tutte quelle affermazioni retoriche che fanno preda chi si limita a storcere il naso, quando, di fronte a ciò che sembra apparentemente più difficile da decifrare, andando oltre l’ovvio, adotta l’atteggiamento qualunquista riassunto nella premessa “la musica ai miei tempi…”
Poi ho smesso di tirarmela e ho capito che dovevo tornare umile e ricordarmi di quando ascoltavo I Blue, che tra l’altro hanno anche fatto una reunion. Ma questa è un’altra storia.
Non vi dirò di ascoltare thasup, non vi parlerò del suo nuovo disco. Onestamente la recensione track by track potete trovarla ovunque e soprattutto non ho abbastanza capelli bianchi e cinismo per permettermi di asfaltare un artista ed essere presa sul serio. E non è questo il mio intento.
Ma torniamo al 2001, ai miei sei anni, al gap generazionale e a tutte quelle robe da vecchi con la polvere sulle spalle. Mi sono interrogata sul perché a 27 anni mi affascinano fraseggi come: «Oh my god, bruh ma Non vedi che differenza abbiamo/Io che c’ho iniziato da un garage/Tu che ci finirai alla mia età».
Probabilmente sarò io che finirò a vivere in un garage tra qualche anno, però ciò che non mi fa smettere di ascoltare il disco di thasup da quando è uscito (lo scorso 30 settembre), è la mia passione smodata per tutto ciò che sembra, apparentemente indecifrabile o che sembra apparentemente senza senso. Tutto è cominciato col proverbiale «Swisho un blunt, a swishland / Bling Blaow come i Beatles / Blessing, Tic Tac, le prendo dal mattino» nell’ormai lontano 2019.
thasup è innanzitutto un’operazione di marketing. A partire dalla sua scelta di rendere il suo nome ancora più sincretico, alle promozioni che anticipano l’uscita dei suoi dischi, fino alla volontà di costruire attorno alla sua immagine una versione di sé formato cartoon attraverso la quale può raccontare se stesso e i dissidi della sua generazione.
Ma perché, io a ventisette anni mi ritrovo in quello che racconta?
Trap, linguaggi, e scontri tra generazioni
Forse il limite di pubblico più grande che incontra la musica Trap, almeno nell’immaginario collettivo, risiede nella sua definizione. La si identifica come la musica della generazione dei nativi digitali, cresciuti a pane e social network. Non a caso il marchio distintivo di thasup è l’alfabeto leet che vuole quasi cavalcare questa necessità di nascondersi da occhi indiscreti. Per cui la musica diventa una chiave di accesso, una password per entrare, loggarsi in un mondo nel quale le lettere dell’alfabeto sono numeri, simboli, codici per piccoli nerd o haker che si siedono di fronte a te e tu nemmeno lo sai.
Ti limiti a farti trascinare da un ritmo travolgente inedito e al tempo stesso familiare e a ripetere parole che afferri ma non del tutto. Che poi è anche ciò che sembra di thasup. Un piccolo haker che si serve della rete per comunicare i suoi messaggi, con un’incisività talmente impattante che rimbalza anche offline, costringendoci inevitabilmente a parlarne e soprattutto ad ascoltarlo.
Ma al di là del cash, dello switch e dei Joint… cosa dice Davide?
Che perdiamo tempo ad affannarci dietro all’approvazione degli altri, al successo, alle classifiche, ma siamo solo frammenti di storie piccolissime in un libro del quale non vedremo mai la fine e di cui non conosciamo l’inizio. Il mondo va di fretta, attanagliato dalla necessità di diventare status simbol, di quantificare l’amore degli altri, dietro all’idea di un lavoro soddisfacente, una casa di proprietà, le foto delle vacanze al mare, i like, le reaction. Ma chi siamo dietro allo schermo? E soprattutto cosa conta davvero?
Al lettore sembrerà chiaro che rispondere a queste domande non ha più a che fare con una questione generazionale. “Se sbaglio pago ma lo rifaccio a loop” ripetuto fino allo sfinimento diventa un po’ la colonna sonora di un’esistenza nella quale nessun errore sarà mai abbastanza grande da impedirci di commetterne altri; una filastrocca logorroica e petulante che trasforma l’esistenza in una corsa a ostacoli nella quale sembra quasi che chiediamo consigli agli altri solo per il gusto di fare l’opposto di quello che dicono e deludere le loro aspettative.
Mi vedi? Sono un’eterna delusione, la fotocopia gualcita di un manoscritto preziosissimo del quale ho piegato per sbaglio l’ultima pagina; sono quell’inchiostro nero che finisce sprecato.
Chi sono i cantanti di oggi e quale direzione sta prendendo la musica?
Allora il punto della questione risiede proprio nel voler analizzare quel lasso di tempo che intercorre tra il ’94 anno della mia nascita e il 2001.
Mi ricordo che quando frequentavo il liceo, dopo che ho superato quasi indenne la fase da fandom del club dei talenti di amici di Maria (con tutto il rispetto), ho iniziato ad appassionarmi alla discografia di Battisti.
Lucio era un artista riservato, misurato e talvolta anche dispettoso e tagliente nelle risposte che dava a chi cercava di curiosare oltre alla sua sfera di attinenza. In un’intervista dichiarò che un artista non ha niente da dichiarare e null’altro da aggiungere rispetto a ciò che dichiara nei suoi dichi. Parafrasando la stessa cosa afferma thasup in r!va: “Se vuoi sapere quello che penso/ l’ho scritto in CD”.
Il paragone potrebbe risultare azzardato ma qui il punto della questione è un altro: siamo ossessionati dalla voglia di curiosare dietro alla vita privata degli artisti, di spiare nel loro privato per imitarli o prenderci gioco di loro e del loro successo. Mi sono chiesta perché a 15 anni ho sentito l’esigenza di conoscere la musica di un artista per certi versi lontano dalla mia generazione e oggi mi succede la stessa cosa, però per eccesso.
Ho letto di recente un articolo che parlava del perché i millennials guardano ancora i teen drama. Una spiegazione rintracciava il nostro bisogno di rivivere i bei tempi andati: gli amori adolescenziali, il liceo, l’isolamento le incomprensioni coi genitori, il senso di ribellione; ma ho trovato questa motivazione un po’ troppo semplicistica.
Traslando la questione sull’ambito musicale se mi confronto coi miei coetanei della scena vedo un vuoto cosmico. Una mancanza di argomenti che, anche spostando l’asse temporale di poco, trascende in un repertorio di canzoni sentimentaliste, amori impossibili urlati a squarciagola, tradimenti e riappacificazioni che, al di là dei ritornelli orecchiabili poco spazio lasciano all’introspezione.
Sì, va bene, ci sono i Pinguini Tattici Nucleari che si sono appiccicati con una certa compiacenza l’etichetta del pop; c’è Coez che ancora pensa di sentirsi figo mettendo le mani nei pantaloni; e poi c’è pure Tiziano Ferro tra lo sgomento di chi dice “Tizia’ ma che fai?” e chi tuona: “ma pure te non sei un po’ troppo vecchio pe’ fa ste robe?”
Forse. Ma basterebbe spostare, ancora, l’asse temporale di qualche anno per rendersi conto di come sia tutto un ritornare ciclico di stagioni nelle quali, se si sfoglia l’album dei ricordi, si può perfino trovare l’annuario in cui c’è tizianone nazionale che canta “L’Olimpiade” ballando coi pantaloni di pelle e le maglie larghe, sbiascicando parole di testi ermeticissimi con un aggravante non trascurabile: le parole che diceva lui erano in italiano.
Va beh, superando la commozione del maestro che canta con l’allievo, mi riconosco nei linguaggi, nelle metriche nella musica della generazione Z, nelle sue urgenze.
Questo perché mi parla senza fronzoli, tracciando una linea di demarcazione (o forse cavalcandola) tra i tipici temi del genere “trap” e la voglia di riscrivere le sonorità della musica contemporanea con un sound incalzante e una voce che ora si fa piccola ora si fa potente e calda, consolatoria, come quella di Davide. E cosa siamo noi giovani d’oggi, se non adolescenti ormai cresciuti ai quali si chiede di assumersi le proprie responsabilità? “Perché sai, io alla tua età avevo già un lavoro e una famiglia”. E tu non sai se rispondere “Pensa che culo” o “Beato te”.
Certo, potrei ragionare ancora una volta, spostandomi dal mio punto di vista e chiedermi: se questa è la musica del momento che segna la strada per il futuro, quanti sono i quarantenni che ascoltano thasup?
La domanda probabilmente è superflua, forse qualche figlio degli anni ’80 potrà dissipare i miei dubbi, forse thasup è l’ennesimo esperimento destinato ad essere surclassato dalla moda musicale del momento, ma poco importa.
Torneranno tempi migliori, tornerà la “musica vera” e noi tra qualche anno ci riconosceremo tra un asterisco e una parentesi quadra, tra un rinvio di significato e un segno di interpunzione che assumerà un significato nuovo.
Allora, potremo scostarci la polvere dalle spalle e dire, come ogni boomer che si rispetti: “noi c’eravamo”.