Dopo quasi quattro anni dall’uscita del suo ultimo album, Zibba torna in punta di piedi con cinque tracce che sembrano passi scanditi e pesati, minimali ma giusti, come i titoli che danno un volto e un nome alla prima parte di un lavoro più ampio dal concept “Amore, Morte e Distrazioni”.
“Arancione” è la prima parte di un trittico in cui l’introspezione la fa ancora da padrone ma il ritmo è decisamente più incalzante rispetto al passato. Come se volesse fare da accompagnamento all’esigenza di emergere con nuove cose da dire, con una fretta che non è superficialità, quanto il bisogno di consegnare questo pezzo di strada al prossimo per guardare ad un nuovo futuro, prossimo.
Si tratta di una assenza solo apparente, perché in questi ultimi anni il cantante ligure oltre a suonare, scrivere e cantare per sé stesso, si è dedicato alla produzione di diversi artisti emergenti (Jamilia, Zueno e Igloo, per citarne alcuni).
Mi rendo conto che sarei imparziale se questa fosse solo una recensione in cui vi invito ad ascoltare un bel disco. Perché Zibba è uno degli artisti che stimo di più a livello artistico: per come scrive le cose, per come le dice, per il suo timbro profondo e caldo che mi consola da quando per stare bene bastava chiudere gli occhi “Senza pensare all’estate”.
Sarei imparziale anche perché un po’ lo odio. Vorrei essere in grado di esprimermi con la stessa fermezza e invece mi è concesso solo l’ardire di ascoltarne e commentare o tutt’al più immaginare. Così per la prima volta, ho provato ad andare oltre alle recensioni che scrivo di solito e a vestire per vestire in prima persona i panni di un uomo senza avere la pretesa di essere esauriente. Ne è venuto fuori quanto segue.
Arancione è il colore di chi si mette a fuoco.
Ti vedi, ti guardi allo specchio, hai quarant’anni, il viso stanco di chi dorme poco la notte e non riesce a smettere di fumare. Hai avuto un figlio, hai rivisto la scala delle tue priorità ma non hai smesso di porti domande. Quelle sono le stesse di quando ne avevi venti e ti chiedevi se di quello strimpellare la chitarra, avresti potuto mai farne un lavoro.
Hai quarant’anni e le domande non sono cambiate. Ma forse è cambiata la prospettiva dalla quale guardi le cose. Hai imparato a defilarti, a non fare di te il centro di un microcosmo in cui i successi per contare devono superare per eccesso i fallimenti. Tuo figlio ti guarda e capisci che i suoi perché valgono più delle risposte che non riesci a trovare.
Don’t panic è il maniglione salvavita che premi quando smetti di scappare. Quando guardi avanti e non indietro, quando capisci che le contraddizioni sono ossimori che fanno respirare l’anima. Perché in fondo l’amore non è altro, una metonimia che concede perfino alle ferite di curarti, anche mentre ti fanno sanguinare.
Però non ne puoi fare a meno. La tua storia ti definisce, i tatuaggi sulle braccia ti disegnano come un uomo forte, tratteggiano la possanza di un’esternalità che si scontra coi Pezzi di un dentro che ancora, quando canta, vive l’ansia di consegnare parti di sé all’ignoto.
E con gli altri non hai imparato ancora “a saperci fare”, perché il tuo mestiere è sempre stato quello di osservare: i dettagli, gli inutili, i ritagli, gli scarabocchi.
Sei l’ultimo della fila, ma per scelta. Non avevi voglia di alzarti per buttarti in un mondo in cui conta esagerare. Guardi ai tuoi difetti come se fossero i tuoi amici di sempre e li trovi ingombranti e veri. Però sei pronto. Sei consapevole che prima o poi il frastuono finisce, che l’onda pop è un marasma di cose che si susseguono in un eterno ritorno dell’uguale. Ma tu te ne stai nel tuo, perché avevi previsto tutto. Torniamo pezzi, siamo fragili ma coprimi gli occhi che non ho voglia di guardare, mentre divento grande.
Eppure, non hai scampo. Le rughe attorno agli occhi sono come i cerchi concentrici che definisco l’età degli alberi: hai quarant’anni ma non riesci a smettere di parlare di te. Il primo pronome personale è ancora l’oggetto preferito dei tuoi discorsi, ti sei limitato a sostituire il complemento. Ti preoccupi per gli altri, non riesci e non vuoi immaginare il vuoto che lascerebbero. E invidi perfino i Cani che “pisciano senza rimpianti”. Invidi la loro capacità di amare senza conseguenze, di amare per il gusto di farlo, senza che tornare significhi “Torno solo se torno da te”.
Cose ‘e nente è quella scala delle priorità che prende forma, che assume consistenza. È l’arte di arrangiarsi: se mangiamo in piedi in una cucina arrangiata di una casa che abbiamo trovato per caso, perfino la pizza surgelata ha tutto un altro sapore.
Hai scritto per tutte le donne che ti sono passate accanto, hai creduto che fossero quelle giuste, gli hai fatto credere che bastasse scrivere una canzone per amarle. Ti sei distrutto per “niente”.
Poi, in un appartamento che sa di fumo ti chiedi ancora se hai il permesso di avvicinarti, se puoi stringerle i Polsi, quali sono le cose che hai bisogno di sentirti dire e quelle che puoi sottintendere.
“Ci si riconosce dall’odore, dal dolore”. Ci si riconosce dai confini che si ha paura di oltrepassare, dai muri che si teme di infrangere, non per mancanza di coraggio ma per pudore. Hai quarant’anni e hai sostituito la foga con la pazienza, la smania con la delicatezza di chi sa dire “mi lascio andare, solo se mi dici che lo posso fare…”
“Arancione” è un quadro cubista che fa da sfondo (e da copertina) a 5 tracce che celebrano le imperfezioni per provare a farci pace. E quando arrivi a quarant’anni hai due possibilità: o lo trasformi in un mestiere o ne fai arte.
Agli ascoltatori l’ardua sentenza che io sono di parte.